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Miti e realtà del Quantitative Easing alla Mario Draghi

Draghi, Bce, vigilanza

Non c’è più nulla di “convenzionale” nei piani di azione delle banche centrali. In questi giorni la Banca Centrale Europea (BCE) inizierà ad acquistare titoli di Stato senza sterilizzare, ovvero stampando moneta, sotto il nome di quantitative easing (QE). La BCE ha sparato la cartuccia più grande del suo arsenale. Siamo in uncharted waters, in acque inesplorate, come i banchieri centrali definiscono una situazione dalle conseguenze sconosciute.

La decisione arriva dopo tre anni di interventi meno invasivi, quali il rifinanziamento illimitato a medio termine delle banche ad un tasso vicino allo zero o tassi negativi sui depositi delle banche presso la banca centrale. Sebbene hanno evitato un’ecatombe finanziaria, queste misure non hanno risolto i nodi strutturali che hanno fatto scivolare il tasso d’inflazione dell’eurozona a fine 2014 sotto lo zero e hanno decimato l’accesso al credito nella periferia. Anzi, la BCE si è ritrovata con un sistema bancario indebolito e meno internazionale, che ha utilizzato quella liquidità per acquistare titoli di stato domestici e sostanzialmente beneficiato di un carry trade tra il tasso BCE e il tasso di mercato. Non è quello che la banca centrale avrebbe voluto, ovvero fornire liquidità al sistema bancario affinché più credito fosse trasferito al sistema economico.

La natura di questo intervento

Come per altre banche centrali, la perdita di controllo sui meccanismi tradizionali di trasmissione della politica monetaria ha sancito in qualche modo il parziale fallimento di interventi tramite il sistema finanziario. Pertanto, non è rimasto che l’intervento diretto nel mercato secondario con l’acquisto di strumenti finanziari considerati a basso rischio (per limitare le perdite). Oltre ad alcuni tipi di cartolarizzazioni e obbligazioni garantite, la BCE (tramite le banche centrali nazionali) acquisterà ogni mese intorno ai 45 miliardi di titoli di Stato dell’area euro e 6 miliardi di titoli emessi da istituzioni europee (come il meccanismo di stabilità, o ESM), da marzo 2015 a settembre 2016. Il mandato permetterà alla BCE di estendere gli acquisti anche oltre il 2016, se l’inflazione non risale verso il 2%. Ad esempio, nel 2015 si potranno acquistare obbligazioni italiane per circa 5,4 miliardi al mese, ma senza mai raggiungere il 33% di tutti i titoli in circolazione dallo stato italiano o il 25% di una singola emissione. Alla fine potrebbero essere comprati titoli italiani per 103 miliardi, che si sommerebbero ai circa 76 miliardi che la BCE già possiede. Inoltre, la BCE porterà nel suo bilancio solo l’8% dei titoli di stato acquistati, al massimo 67 miliardi, mentre gli altri 769 miliardi potranno essere acquistati dalle banche centrali nazionali a loro rischio. Tuttavia, il risk sharing è fittizio, poiché le banche centrali nazionali possono operare anche con un capitale netto negativo.

Quali effetti sull’economia?

Sebbene la complessa rete di regole ed eccezioni riduca il peso reale di questo intervento, è noto che il QE non abbia precedenti nella breve storia della BCE. È una parziale monetizzazione (e quindi condivisione) dei debiti pubblici dell’area euro. La decisione di destinare il 12% degli acquisti a titoli emessi da istituzioni europee, come il meccanismo europeo di stabilità (ESM), è una decisione senza precedenti che eleva l’ESM ad una forma preistorica di ‘tesoro’ europeo.

I principali effetti del QE possono essere categorizzati in tre aree: tassi d’interesse, tassi di cambio, politiche fiscali.

–       L’effetto sui tassi d’interesse

Iniziative simili hanno avuto un forte successo negli Stati Uniti, con un contesto tuttavia diverso. L’obiettivo è poco chiaro. La curva dei tassi d’interesse (costo del credito) è già a livelli storicamente minimi anche nel lungo termine, mentre i tassi d’interessi sui titoli di stato dei paesi eurozona e lo spread tra periferia e paesi core sono ritornati a livelli antecedenti al 2010 (anche per stati in difficoltà).

grafico valiante

Alcuni sostengono che la prospettiva di un QE della BCE abbia favorito l’attuale decoupling tra i tassi d’interesse della Grecia (in forte crescita) e gli altri stati in difficoltà dell’eurozona (che rimangono stabili). Tuttavia, si potrebbe anche sostenere che il decoupling sia di fatto iniziato molto prima dell’intervento BCE, quando il debito greco fu ristrutturato e trasferito quasi interamente ad istituzioni pubbliche europee e nazionali (per oltre il 90%).

In aggiunta, l’acquisto dei titoli di stato sul mercato secondario dovrebbe fornire ulteriore liquidità alle banche, che stanno già fronteggiando la restituzione delle quote di rifinanziamento a lungo termine che scadono nel 2015. In teoria, questo dovrebbe indurle a fornire più credito all’economia. In realtà, grazie alla patrimonializzazione favorevole e l’avversione al rischio, le banche potrebbero preferire i titoli di stato, che garantiscono un ritorno sicuro, alla liquidità. Inoltre, l’acquisto di titoli di stato potrebbe determinare un’illiquidità sul mercato del collaterale con effetti domino (opposti) sul costo del denaro.

–       L’effetto sui tassi di cambio

L’annuncio ha già spinto i mercati a scontare parte dell’intervento con l’indebolimento dell’euro contro le principali monete nazionali. È un segnale di voler espandere la moneta in circolazione per stimolare ritorni e contenere spinte speculative sul costo dei debiti pubblici. Dovrebbe stimolare le esportazioni e dare un maggior respiro agli investimenti. Tuttavia, se si pensa che solo il 20% del prodotto interno lordo viene oggi esportato fuori dall’eurozona, l’impatto reale potrebbe essere abbastanza limitato. Nel frattempo, ci sono già alcune vittime eccellenti dovute alla fuoriuscita di capitali dall’area euro. La banca centrale svizzera ha mollato la parità con l’euro, mentre il governo danese è stato costretto a sospendere l’emissione di titoli governativi. Non si sa quali saranno gli effetti di lungo termine sulla sterlina e sull’economia inglese. Una rivalutazione della sterlina potrebbe aggravare la bolla speculativa nel settore immobiliare inglese. Inoltre, molto debito pubblico, come nel caso della Francia, è principalmente nelle mani di investitori esteri. L’instabilità che un euro debole potrebbe portare al continente europeo non va sottovalutata, soprattutto se l’Europa non riesce a compensare con una governance politica forte (vedi Stati Uniti).

–       L’effetto sulle politiche fiscali (incentivi)

Il QE dovrebbe migliorare anche la posizione finanziaria esterna dell’area euro. Tuttavia, la bilancia dei pagamenti dell’euro area (inclusi i paesi in difficoltà, ma non ancora la Grecia) è già saldamente in positivo. Siamo noi creditori verso l’esterno, con l’autonomia finanziaria che questo comporta. Il QE avrebbe avuto certamente un impatto maggiore nel pieno dell’emorragia finanziaria post-ristrutturazione del debito greco nel 2011 con limitati effetti inflazionistici[1], come il sottoscritto aveva sostenuto.[2]

Ci si dovrebbe chiedere poi se alleggerire i bilanci delle banche dai titoli di stato ne incoraggi davvero la ristrutturazione da parte dei governi nazionali e nel frattempo stimoli le aspettative d’inflazione. La ristrutturazione del sistema bancario e industriale con il completamento del mercato unico in molti settori e la mobilità dei fattori produttivi, agevolando fusioni e riorganizzazioni anche transfrontaliere, dovrebbero essere una priorità delle politiche fiscali dei governi. Siamo sicuri che gli incentivi siano allineati? Siamo certi che senza pressioni di mercato l’Euro area riuscirà a trovare la dura via delle riforme? Non dovrebbe esserci un (implicito) progetto unitario europeo dietro le riforme strutturali nazionali, come controparte per il QE della BCE? Ignorare il legame tra politiche fiscali e monetarie rischia solo di prolungare uno stato d’incertezza che sta affossando l’economia europea. La BCE continua a ‘comprare’ tempo, ma il conto potrebbe risultare molto salato.

[1] Il tasso d’inflazione (HICP) annuale è oggi allo stesso livello del 2009 (fonte Eurostat). Era chiaro che se la crisi (come prevedibile) sarebbe andata avanti la risalita del tasso d’inflazione nel 2011 sarebbe stato un effetto temporaneo. La BCE dovrebbe pertanto proteggere anche il lato forward della curva dei tassi d’inflazione e non guardare solo al dato storico.

[2] Si veda Valiante, D. (2011), “The Eurozone Debt Crisis: From its origins to a way forward”, Center for European Policy Studies, Policy Brief, n. 251.

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