Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori, pubblichiamo l’articolo di Alberto Pasolini Zanelli uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.
È il colpo più duro inferto a Barack Obama (si potrebbe dire «nella schiena») alla vigilia di un incontro che potrebbe decidere i rapporti fra gli Stati Uniti e l’Iran per almeno un decennio e impostare in modo nuovo l’intera area del Medio Oriente. Il segretario di Stato John Kerry era in partenza per un tête-à-tête dal grande potenziale.
E, proprio in quel momento, il partito d’opposizione a Washington, il partito repubblicano, ha lanciato il suo «missile» contro la Casa Bianca. Tale era il suo obiettivo anche se l’indirizzo era a Teheran, la controparte. Il senso del documento è molto chiaro, minaccioso e senza riguardi e si può sintetizzare così: «Ignorate Obama».
Mentre i negoziati si avvicinano alla chiusura e, in caso di successo, a una soluzione non definitiva ma a lunga scadenza. Questo intervento senza precedenti aveva il fine di bloccare ogni processo di distensione in quella parte del mondo che ne ha più che mai bisogno. John Kerry è pronto a sedersi una volta di più a un tavolo in una sede neutrale (questa volta la Svizzera) per completare la struttura del documento, che dovrebbe essere in vigore per almeno dieci anni. E invece dal Congresso di Washington è partita una bomba che potrebbe bloccare gli sforzi per tenere sotto controllo la Bomba.
È, abbiamo visto, una lettera il cui testo è stato presentato in Senato da un esponente repubblicano e messo ai voti. Come tale non è passato, ma ha raccolto il sì di 47 senatori sui 54 repubblicani. Non è dunque un documento del Senato, ma l’espressione quasi unanime del partito di opposizione. È una «lettera aperta» indirizzata ai «leader della Repubblica islamica dell’Iran» e dichiara che «ogni accordo fra il governo iraniano e il presidente Obama avrà un valore molto limitato e potrebbe essere cancellato in qualsiasi momento o dal Congresso o dal futuro presidente con un tratto di penna». Sarebbe quindi un errore scambiarlo per un impegno dell’America e la controparte non dovrebbe dunque attribuirgli alcun valore.
Va ricordato che il trattato in questione sancirebbe la sospensione per almeno dieci anni della costruzione di un’arma nucleare iraniana, in cambio della cancellazione delle sanzioni in corso contro Teheran da quasi tutte le maggiori potenze del mondo. Esponenti democratici a Washington l’hanno definito «un ricatto e un ammutinamento». Obama in persona ha definito «ironica» la lista di membri del Congresso che desiderano fare in qualche modo causa comune con gli estremisti in Iran, quelli che vorrebbero invece, liberi da impegni, imbarcarsi nel nucleare, in meno di un anno. Un fallimento che accelererebbe le reazioni più estreme di autodifesa da parte di Israele, farebbe ripartire la corsa agli armamenti, distruggerebbe quel poco che si sta tentando di fare per arginare la valanga dei jihadisti dell’Isis, creando una nuova struttura di alleanze fra i Paesi arabi.
Prospettive allarmanti, ma di cui qualcuno ha meno paura che di un compromesso, per quanto arduo e complesso. Una scelta è particolarmente urgente, inoltre, per altre scadenze politiche: verrebbe a slittare l’assenso del Congresso Usa e una ulteriore scarica emotiva coinciderebbe con le imminenti elezioni in Israele. È in gioco, fra pochi giorni, il destino politico di Benjamin Netanyahu. I sondaggi lo danno in leggero vantaggio sull’antagonista, il moderato Yitzhak Herzog, a chiusura di una campagna elettorale dalle molte tensioni. Sono venuti ancora una volta alla ribalta vecchi problemi, come il futuro della Palestina nel contesto della svolta verso la violenza espressa da combattenti del Califfato e, più preoccupante ancora a medio e lungo termine, l’indebolimento sistematico di tutte le strutture di governo, dalla Siria all’Irak alla Libia, a ogni «nazione fallita».
Sotto tali tensioni ha ritrovato ascolto il «falco» Netanyahu, con l’appoggio completo della destra repubblicana a Washington, ma anche un’opposizione particolarmente ferrata negli ambienti militari e di sicurezza dello Stato ebraico. Un ex capo del Mossad, il controspionaggio israeliano, Meir Dagan, ha definito le politiche di Netanyahu «distruttive per il futuro e la sicurezza di Israele». E una lobby di oltre 200 fra ex generali e responsabili del controspionaggio ha firmato un manifesto contro le strategie seguite dal premier, che mettono in grave pericolo «i nostri rapporti con gli Stati Uniti».