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Inps, tutti in pensione ma non paga più Pantalone?

La recente intervista al Corriere del neo presidente dell’Inps, Tito Boeri, sul futuro della previdenza italiana, ed alcune note criticità del nostro sistema pensionistico, soprattutto quelle causate dalla riforma Fornero, confermano che il dibattito sta inesorabilmente spostandosi verso un esito che segnerebbe l’equivalente della rivoluzione copernicana nei salvataggi bancari: cioè oneri in capo non più ai contribuenti ma ai diretti interessati.

In questo momento in Italia abbiamo un problema sociale, rappresentato da quanti sono vicini al completamento del periodo di maturazione dei diritti pensionistici ma hanno perso il lavoro o rischiano di perderlo e non dispongono di ammortizzatori sociali ad hoc per colmare la distanza tra uscita dal lavoro e percezione dell’assegno pensionistico. In pratica, è come se vi fosse un rubinetto aperto da cui si creano esodati, secondo un’accezione che spesso tende a dilatarsi, anche per convenienze politiche. I vari provvedimenti di salvaguardia di queste persone sin qui stratificatisi hanno già prodotto un cartellino del prezzo di circa 12 miliardi di euro, destinato ad aumentare.

E’ quindi evidente che rischiamo l’ennesimo assalto alla diligenza dei conti pubblici, con i sindacati che già salivano (voce del verbo salivare) copiosamente per reintrodurre un sistema di quote, spalleggiati dall’ala sinistra del Pd e dal presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano. A ciò si aggiunge il mito ed il miraggio della “staffetta generazionale”, in cui il pensionamento degli “anziani” libera magicamente spazi per i giovani, nel tradizionale modello superfisso tanto caro alla nostra narrativa pubblica, ed un orientamento culturale prevalente in cui ci si sdegna per l’aumento del tasso di occupazione nella fascia di età 55-64 (analogo a quello di tutti i paesi sviluppati), che si contrappone a tassi di inoccupazione patologici nella fascia 15-24. Che fare, quindi?

Boeri (ma anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, sia pure con sfumature di cautela tutta politica), rilancia l’idea: «Poi, dal lato della previdenza, è chiaro che, usando il calcolo contributivo, si potrebbero introdurre forme di flessibilità».

Cioè consentire l’uscita anticipata dal lavoro, ma con pensioni proporzionalmente più leggere?
«Sì. Ma prima bisogna convincere la Commissione europea, perché purtroppo i conti pubblici vengono considerati nella loro dimensione annuale anziché sul medio-lungo periodo. Per l’Ue se si consentono i pensionamenti anticipati risalta solo l’aumento immediato della spesa ma non il fatto che poi si risparmierà perché l’importo della pensione sarà più basso. Bisogna battersi in Europa per arrivare a una valutazione intertemporale del bilancio»

Questa è l’essenza della discussione: usare una contabilità pubblica europea che attualizzi le contingent liabilities previdenziali. E qui si arriva al concetto di bail-in, cioè l’onere dei pensionamenti anticipati a carico non più della fiscalità generale ma degli interessati, e che risiede nel ricalcolo dell’assegno pensionistico col metodo contributivo puro, per consentire l’uscita. In pratica, si tratterebbe di applicare a tutti il principio della cosiddetta opzione-donna, che consente di andare in pensione prima del previsto (a 57 o 58 anni), ma con integrale ricalcolo dell’assegno pensionistico con metodo contributivo. Un taglio all’assegno che in media è del 25-30%, e la fruizione differita di 12 mesi, sono le caratteristiche salienti dell’opzione-donna.

Servirebbe fare due conti per valutare l’effettiva convenienza ma, se la scelta si generalizzasse, finiremmo col creare un potente incentivo a spostare tutta la popolazione attiva verso il sistema contributivo puro. Tutti in pensione ma non paga più Pantalone, è la sintesi. Proprio come accadrà per le banche in dissesto. E’ l’era del bail-in, figlia della crisi fiscale.

Leggi l’articolo integrale su phastidio.net


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