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Pirelli, Tronchetti e la lezione (trascurata) di Prysmian

Questa è la storia della Pirelli e, anche se non è guidata da Marco Tronchetti Provera, non è una Pirelli parallela; al contrario è quella dalla quale tutto è partito. Oggi si chiama Prysmian e si tratta dell’antica Pirelli Cavi e Sistemi fondata nel 1879, quando ancora non c’erano gli pneumatici. La stessa che nel 1925 collegò l’Italia e il Sud America con 5.150 chilometri di cavi telegrafici sottomarini; un’impresa record.

Scorporata dal resto del gruppo, nel 2005 viene venduta a un fondo di private equity che fa capo a Goldman Sachs, perché Tronchetti cerca soldi per rifarsi della sua disavventura in Telecom Italia e vuole concentrarsi nei prodotti considerati d’alta gamma: le gomme per le auto. Quattro anni dopo, in piena crisi finanziaria, Goldman decide di uscire e a questo punto si fa avanti Giovanni Tamburi, banchiere d’affari cresciuto nell’Euromobiliare di Guido Roberto Vitale quando c’era anche Carlo De Benedetti. Brillante e sempre contro corrente, il suo mantra è comprare quando tutti vendono, ma nel corso degli anni si è messo in testa di diventare il Cuccia del Quarto capitalismo. Per questo ha riunito attorno a sé alcune famiglie di industriali come Ferrero, Angelini, Seragnoli, Manuli, Marzotto, Lunelli, gente che soldi ne ha ed ha affrontato tutto sommato bene la Grande Recessione, ma che non vuole lanciarsi in operazioni da private equity all’americana.

Così, quando Prysmian sta per finire in mano a chi sa chi, Tamburi fa la colletta e compra un pacchetto del 6%. Siamo nel 2010 e c’è un’altra persona che non ha nessuna intenzione di veder scomparire la storica compagnia per la quale lavora: si chiama Valerio Battista, ingegnere fiorentino che fa l’amministratore delegato della società dal momento in cui Tronchetti l’ha messa in vendita. E’ lui a guidare la nave in mezzo alla crisi, barcamenandosi con azionisti che non sono interessati al prodotto, ma solo agli utili. I quali arrivano copiosi, tanto che, incredibile a dirsi, fatturato e capitale di Prysmian superano anche quelli della Pirelli rimasta a Tronchetti.

Tamburi e Battista sembrano fatti per intendersi e mettono in opera la più importante operazione di management buy-out in Italia, una storia di successo che poco è stata narrata perché presi dalle geremiadi della crisi, dalla lamentatio sul capitalismo straccione, sulla mancanza di imprenditori, sui manager predoni e via via baloccandosi con i luoghi comuni di tutti questi anni.

Prysmian va avanti come un caterpillar diventando sempre più internazionale. Il fatturato supera i 7 miliardi di euro, produce in 50 paesi con 91 stabilimenti, diventa il numero uno al mondo in un settore sempre più strategico oggi che le telecomunicazioni, anche le più avanzate, tornano a ruotare attorno ai cavi. Nel 2011 compra dalla Philips una compagnia olandese, la Draka, acquisendo così un punto di forza tecnologico nella fibra ottica e compiendo un vero salto di qualità e di taglia.

E la proprietà? Prysmian resta una public company. Clubtre, la srl che fa capo a Tamburi, è la principale azionista con il suo 6%, poi c’è la banca nazionale norvegese, JP Morgan e fondi d’investimento tutti con il 2%. L’anno scorso anche Prysmian ha cominciato a risentire della crisi e alcuni stabilimenti, in particolare italiani, sono minacciati di ridimensionamento. Nessuno sfugge agli alti e bassi del ciclo economico, naturalmente. Tuttavia, questa storia andrebbe raccontata più spesso e rappresenta senza dubbio un modello alternativo a quello seguito da Tronchetti che lo ha portato nelle braccia dello Stato cinese.

Durerà o anche questo laboratorio di un capitalismo da manuale verrà travolto nella battaglia di giganti che si svolge sul mercato mondiale? Come si fa a saperlo? Il capitalismo cambia e si trasforma in continuazione, il capitale è Proteo. Ciò rappresenta la sua forza (o la sua debolezza per chi ama la stasi e magari la decrescita felice). Tuttavia Prysmian dimostra che un’alternativa è sempre possibile, se la si cerca e la si vuole, che non esistono imprese destinate a scomparire o settori senza più futuro se si è in grado di innovare, investire, governare bene le aziende. A che servono le penne stilografiche nell’era del touch screen? chiedono i seguaci del determinismo economico. Per la risposta, basta rivolgersi a Montblanc.

La vendita di Pirelli ai cinesi è stata interpretata finora come un ulteriore gesto di resa del capitalismo italiano che non ha né soldi né uomini per reagire e competere (lo stesso Tronchetti in fondo ha diffuso questa lettura di comodo). Ed è servita ai neoprotezionisti per evocare interventi pubblici, magari della solita Cassa depositi e prestiti che giorno dopo giorno viene trasformata nella barella del nuovo stato ospedale senza averne né la taglia né i mezzi e tanto meno gli uomini. Prysmian dimostra che un’altra strada è possibile. Per quanto ancora, nessuno lo sa, ma perché arrendersi?

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