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Pregi e difetti del riformismo-faso-tuto-mì di Matteo Renzi

Matteo Faso-tuto-mì Renzi ci spiega come spianerà chiunque frapponga ostacoli alla sua inesauribile vena riformistica. In realtà siano sempre di fronte a uno capace di fare esclusivamente mezze riforme. Sul lavoro è stato ottimo il ridimensionamento dell’articolo 18 ma senza una vera contrattazione aziendale mancherà quell’alleanza tra capitale e lavoro che solo può permettere di competere nella globalizzazione.

Bene la fine del bicameralismo perfetto ma quale l’assetto che si propone per bilanciare i poteri? Bene la difesa del bipolarismo ma come si definiscono i poteri esecutivi, di rappresentanza e legislativi? Bene tagliare i costi delle province ma come si manterrà una qualche programmazione intermedia del territorio? Con quel pasticcio delle città metropolitane che ha provocato la prima fuga con Giuliano Pisapia? Bene tagli profondi ai costi delle regioni: ma quale è l’idea di decentramento che si vuole dello Stato? Bene la responsabilità civile dei magistrati, ma il prezzo da pagare sono i processi a vita e i bilanci delle imprese ostaggi della magistratura militante?

Una delle basi di questo riformismo interruptus è che i renzisti (e seguaci variamente distribuiti) hanno come obiettivo la totale disintermediazione tra esecutivo e singolo soggetto: c’è il capo, c’è il mercato (o meglio, assai spesso, quel mercato speciale che è lo Stato cinese) e poi ci sono gli individui. I corpi intermedi – presi all’ingrosso: siano essi giornali, sindacati, associazione di caegoria – costituiscono dalla loro il vero nemico del “riformismo totale” di Renzi. Con i giornali “copri intermedi nemici speciali” poi magari ci si allea come nel caso della Repubblica, o si cerca di conquistarli come il Corriere della Sera e ancor più la Rai però mai si può essere realmente interlocutori: perché il verbo renzista è che di riforme si è parlato abbastanza e ora è il momento del puro agire senza fastidi determinati da chi vuole non dico discutere ma anche solo pensare.

L’idea che mercato e società siano costruzioni storiche che per essere veramente innovate richiedano di essere riconosciute nella loro funzione geneologicamente determinata è estranea a Faso-tuto-mì che considera la storia solo come un ostacolo e la realtà una carta bianca su cui scrivere le sue volontà.

Il versante liberista dei cultori di Renzi sostiene che così si comporta come la Thatcher. Ben altra mi sembra la sapienza della grande liberalizzatrice della Gran Bretagna. Assai attenta prima con le Flakland a costruirsi basi profonde nel patriottismo nazionale (e dentro quell’esercito che ha da sempre un grande peso nel formare l’opinione pubblica Oltre Manica) poi privatizzando le grandi società nazionali e le case popolari Margaret Thatcher curò con grande attenzione sia attraverso la prassi sia gli statuti la formazione di un ceto di piccoli proprietari che sorreggesse la sua “rivoluzione”.

Insomma, pur mentre diceva non sapere che cosa fosse “la società”, la grande premier inglese aveva un’idea precisa su come strutturare quella che avrebbe affrontare il futuro britannico.

Faso-tuto-mi, invece, pur abile nelle scelte di consenso spicciolo (vedi gli 80 euro per i lavoratori con redditi minori) appare disinteressato a come la società potrà “reggere” le sue riforme che di fatto ricevono il loro consenso dalla disperazione (o così o il caos) e dall’alto (non c’è alternativa a un potere che peraltro non regge su una vera base elettorale ma sul trasformismo parlamentare).

E anche un certo suo “disintermediare” le società appare più che altro un destrutturare forze che non gli sono naturalmente amiche, alimentando nel contempo quella demagogia programmatica che appare la cifra principale della propaganda per la sua azione.
E assumendo questa ispirazione, si sta anche ben attenti a non disintermediare i due poteri che più bloccano l’Italia e che più sostengono il renzismo: la magistratura e il banco centrismo.

Da una parte la sacrosanta lotta alla corruzione (che andrebbe fatta con riforme civili e bilanciamenti istituzionali lasciando alla giustizia gli aspetti patologici non quelli fisiologici del funzionamento della democrazia) diventa puramente espansione del potere della magistratura che pare coincidere (Eni, Ilva, Finmeccanica ma vedremo quali guasti ben più generalizzati e quali strapoteri ben più strumentalizzabili si creeranno con una concezione persecutoria del falso in bilancio) con un trasferimento a sistemi di influenza straniera il controllo sull’economia, dall’altra la “semplificazione” del sistema bancario (difforme da quella che si realizza in tutti gli altri grandi stati europei) che diventa l’applicazione di direttive della Bce più o meno valide per l’Italia e che non si confrontano con le esigenze di una difesa sistemica degli interessi nazionali. Auditing, bilanciamenti di poteri e riforme di questo tipo sarebbero la vera risposta disintermiadente della società italiana alla corruzione.

Così come sul credito la vera riforma disintermediatrice sarebbe superare un sistema che affida essenzialmente alle banche la funzione (assai poco brillantemente assolta) di finanziare le imprese: in assenza di un efficace mercato borsistico, vi sarebbe bisogno almeno di istituzioni capaci di sostenere il private equità, di fornire venture capital, anche di istituti bancari ma come l’antica Mediobanca, l’Imi, il Mediocredito della Cariplo. Invece anche Bankitalia fa prevalere un banco centrismo che si alimenta e che appare un’altra via non per aprire bensì per colonizzare il nostro mercato.

Di fronte alla mancanza delle fondamentali disintermediazioni ci si sfoga poi con i soliti noti: notai, farmacisti, taxisti. Invece di aiutare la razionalizzazione (e il superamento delle caratteristiche più corporative) di professioni che hanno tenuto insieme la società italiana e che costituiscono piccoli presidi per la salute (le farmacie) la legalità (i notai), i trasporti (i taxi) si individua in questi un nemico da riformare senza neanche consultarli. Secondo il noto motto di certo riformismo: forti con i deboli e deboli con i forti.


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