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Separare politica e amministrazione

(di Flavio Felice e Fabio G. Angelini, Avvenire 14 marzo 2015)

La vicenda di tangenti che ha recentemente visto protagonista il già paladino della legalità palermitana Roberto Helg, oltre a porre in luce la tristezza delle nostre miserie umane, rappresenta anche un importante spunto di riflessione rispetto al Quantitative easing e al suo impatto sul nostro sistema economico e, di riflesso, istituzionale.

Di fronte al facile ottimismo di chi pensa che, in fondo, basterà solo la pioggia di liquidità proveniente dalla Bce per uscire dal tunnel, crediamo sia necessario ribadire che la vera causa dei nostri problemi è il decadimento della nostra cornice istituzionale: «Crisi economica e corruzione – come recentemente ricordato il presidente della Corte dei Conti, Raffaele Squitieri, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario – procedono di pari passo, in un circolo vizioso, nel quale l’una è causa ed effetto dell’altra… l’illegalità ha effetti devastanti sull’attività di impresa e quindi sulla crescita».

Al di là delle pur sofisticate analisi macroeconomiche, le ragioni del “declino” andrebbero ricercate, come ricorda Marco Vitale in un suo recente articolo, nei «trivellatori dei bilanci pubblici» nell’inefficienza burocratica, nel costo abnorme della politica e negli stuoli di corrotti e di ladri. A questo groviglio istituzionale “estrattivo” si può rispondere solo con istituzioni inclusive, dinamiche e, soprattutto, sempre riformabili.
In primo luogo, dobbiamo constatare come da decenni il Paese sia vittima delle sabbie mobili di una serie di riforme e controriforme emergenziali che ne hanno stravolto l’assetto istituzionale, senza però mai riuscire a modernizzarlo, finendo per opprimere il settore economico e privando la società di quella cultura civile che agisce da argine critico alle pretese del potere. Oggi, le istituzioni sono vittime di un groviglio di interessi particolari che trovano proprio nella politica e ancor più nella burocrazia i principali alleati. Il risultato è un apparato amministrativo scarsamente “inclusivo”, capace solo di garantire il mantenimento dello status quo, o, peggio, il passaggio da un’oligarchia all’altra. Il caso della finta abolizione delle Province, a parere di chi scrive, ne è solo l’ultimo esempio.

In secondo luogo, lo stesso rafforzamento delle autonomie territoriali ha finito per esportare, a livello locale, quei caratteri estrattivi riscontrabili nelle istituzioni centrali. Specie a livello regionale, la nuova classe politica e burocratica si è dimostrata non solo incapace di perseguire gli obiettivi della riforma del Titolo V della Costituzione, ma perfettamente in grado di replicare quelle situazioni di corruzione, di partitocrazia e di sperpero di denaro pubblico che hanno finito per mortificare proprio i princìpi di autogoverno e di sussidiarietà che, sulla carta, avevano ispirato la riforma costituzionale del 2001 e che sono alla base di qualsivoglia modello istituzionale inclusivo.

Infine, le implicazioni di tale evidenza sul fronte della mancata crescita economica del Paese sono molteplici. Ecco perché il tema della qualità delle istituzioni e del circolo vizioso che alimenta le “istituzioni politiche ed economiche estrattive” risulta centrale sia per l’analisi delle cause del nostro declino sia per l’individuazione degli interventi strutturali necessari per dare risposte tanto ai mercati internazionali quanto ai tanti cittadini che vogliano investire le loro energie e risorse nel rilancio del Paese.

Occorre intervenire sul settore pubblico, specie sugli apparati regionali e locali, ridefinendone, a seconda delle peculiarità di ciascun territorio, i confini rispetto alla società civile e accentuando la separazione tra la sfera della politica e quella dell’amministrazione, ponendo il merito e la concorrenza come unici criteri di relazione tra di esse.

I progetti di riforma istituzionale di cui tanto si parla, seppur animati dall’apprezzabile “ritmo” impresso dal Governo Renzi, non sembrano affrontare il nodo dell’inclusione, unico in grado di porre le condizioni per uno sviluppo economico duraturo e dinamico. Al contrario, nella misura in cui propongono, come risposta al fallimento delle Regioni, un nuovo centralismo statale, si assisterà alla concentrazione del potere nelle mani di una ristretta rappresentanza politica, a dispetto dei princìpi di autogoverno e di sussidiarietà su cui si fondano le società aperte.

Cambiano gli attori e la retorica comunicativa, ma la sostanza sembra quella di sempre: è la “la legge ferrea delle oligarchie” che riaffiora immancabilmente.


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