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Una storia di ingegneria di successo, tutta italiana, a Penn Station

Certo, quella che sto per raccontarvi non è una storia di successo di un’impresa agroalimentare italiana all’estero. Non è una storia di business basato sull’identità dell’italiano che, all’estero, è sempre un po’ cameriere, con il gilet, il suo accento biodiverso, che sbatte – col grembiulino ben allacciato- uova per fare gelati. Foss’anche il gelato più biodiverso al mondo.
No, non è la storia dell’italiano, dall’occhio agile e astuto che, da dietro due baffetti che fanno beffardo il sorriso, è stato capace di esportare – in virtù di un’abile strategia di marketing e comunicazione -, il concetto della bancarella dell’ortofrutta in chiave cool&trendy buona per gli abitanti di Soho e dintorni.
E non c’è, in questa storia, la litania del cervello in fuga, né l’adagio dell’edilizia italiana esportata negli States a basso costo e basso profilo in un susseguirsi di disgrazie e stenti come la Vita della Mazzucco. No, quella che sto per raccontarvi è una storia di quelle che passa sotto silenzio perché l’innovazione tecnologica è troppo difficile da raccontare. Talmente poco user friendly, come direbbe in metadatese Riotta, da finire sotto silenzio perché, per primi noi stessi, giusto quando dovremmo averla diritta la schiena, preferiamo guardarci le punte delle scarpe. Questa storia, come tutte le storie d’ingegno, inizia quasi per caso.
La Rizzani De Eccher, importante general contractor italiano con interessi in tutto il mondo, si trova a New York per altri progetti. Sulla 9a Avenue, tra la 31th e la 33th street, la Brookfield Properties ha un terreno che non riesce a sfruttare perché, per edificare, andrebbe chiuso un tratto di ferrovia – a cielo aperto – che dalla vicina Penn Station porta nel New Jersey. Il fatto è che la copertura di quel pezzo di suolo passa attraverso la risoluzione di un problema di ingegneria. Un rompicapo di natura strutturale, assai complicato. La Ferrovia non si può fermare – si tratta di ben 8 binari – e, dunque, occorre inventarsi prima una soluzione progettuale e poi una soluzione costruttiva attraverso cui realizzare la soluzione progettuale. Una matriosca di problemi.
La copertura, poi, quella che deve coprire i binari non è solo cemento buono per fare spalle larghe su cui erigere palazzi per fare quattrini e remunerare gli investimenti che divorano suolo, deve essere anche un polmone per quel tratto di ferrovia che, prima della sua posa, era a cielo aperto. Una schiena con ossa robuste con dentro due bei polmoni. Una macchina complessa che sostiene e ventila.
La Rizzani ha una lunga esperienza nella progettazione di ponti con travi a concio, ha una macchina in grado di posare travi prefabbricate a un’unica campata senza che, da un estremità all’altra della trave, ci sia nulla che debba sostenerle. Ecco. Proprio quello che serve. Ecco la ricetta, dunque. Un po’ d’ingegno combinato con la capacità di adattamento e il saper reagire a un’emergenza – tratto tipico italiano – fanno di un problema, un’opportunità.
Si possono posare le travi senza interrompere il traffico ferroviario, garantendo al contempo un alto livello di sicurezza durante la fase del cantiere dove migliaia di tonnellate di cemento armato devono danzare sopra le teste dei pendolari in transito. Non solo. Le travi a concio, con la loro anima vuota, essendo strutture in parete sottile, come gli elementi strutturali in aeronautica, si comportano da cassa toracica, dentro la quale, può circolare l’aria che va estratta da quello che diventa un vero e proprio tunnel per i treni che dal New Jersey entrano in Manhattan appena prima di fermarsi a Penn Station.
Un anno di sviluppo dell’idea di un team d’ingegneri italo-americano (Rizzani e McNary Bergeron & Associates); un anno di progetto; uno per la realizzazione. La macchina per la posa delle travi viene pensata e realizzata in Italia. 96 container la portano a New York, dove viene assemblata in sito.
A Gennaio del 2014, il varo della prima trave a concio prefabbricata a un’unica campata. Tremano a tanti le gambe il giorno del varo. Perché la posa viene fatta senza arrestare la circolazione dei treni. I subfornitori sono tutti statunitensi perché anche nella terra di Zio Sam bisogna fare i conti con le Union. E il rischio d’impresa, considerando il tasso d’innovazione dell’opera, non potendo controllare verticalmente tutte le fasi di realizzazione, è alto. Ne viene fuori un compromesso perché, alla fine, se hai da mettere sul piatto una buona idea, tecnologia e innovazione lì, oltre l’orizzonte, puoi ancora contare su quello spirito che in Europa abbiamo smarrito. La parte buona del pragmatismo, quello spirito imprenditoriale, sano, che cerca di fare la cosa che conviene a tanti.
Il compromesso è accettare di avere fornitori locali. Che è un bel rischio perché potresti avere fornitori che si comportano come clienti. Ma da quelle parti, dove dall’Hudson sale gelato il vento invernale, il gioco vale la candela. Meglio poter contare su fornitori che conoscono la meteorologia, assai più complicata, delle turbolenti perturbazioni prodotte dalle Union. Dall’Italia arriva a New York City solo il team di progettazione e sviluppo. Il resto è manodopera locale.
E come in tutte le storie poi, anche in questa, i cromosomi contano pure qualcosa. La lista dei fornitori pare presa direttamente a Ellis Island. Ci sono Civetta, Pisacreta. Cento anni dopo Charles Paterno, che con una laurea in medicina costruì mezza Manhattan, dopo essere arrivato a New York – poverissimo – da Castelmezzano in Basilicata lasciando tutto, perfino l’accento che a Ellis Island se ne volò come l’ultima lacrima di nostalgia, la De Eccher copre i binari di Penn Station con una soluzione che fa notizia. L’incarico è stato un affidamento diretto perché si è trattato di una cosa tutta nuova dove non c’erano concorrenti. Perché alla Rizzani è venuto in mente di usare una macchina per la posa delle travi, originariamente nata per fare altro. Dove c’è ingegno e innovazione, non c’è bisogno di mettere in mezzo appalti pubblici. E dove prevale la libera iniziativa e trattative private, dove lo Stato si tiene distante, le cose sembrano funzionare meglio. Ecco perché è importante innovare. Le chiavi sono specializzazione e competenza. Starsene sempre un piano sopra agli altri anche quando si scavano fondamenta.
Si può vendere all’estero know-how e tecnologia anche da italiani. Non siamo solo camerieri, dovremmo ricordarcelo ogni tanto. Per la Rizzani adesso gli Usa, dove a detta di Andrea Travani, – project manager della Rizzani di stanza a New York-, c’è tantissimo da costruire sono un mercato interessante. Già, perché ora che il varo delle travi è finito, e tutto è andato per il meglio, la Rizzani ha una reputazione. E la reputazione negli Usa conta qualcosa, più delle lobbies. Inoltre per la Rizzani De Eccher, anche costruirsi una rete di fornitori qualificati, è diventato più semplice. – Ah voi siete quelle compagnia italiana che ha fatto i lavori alla Penn Station -. Tant’é.


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