Ha espropriato l’Ilva, adesso espropria anche la rete di Telecom Italia? Il Matteo Renzi neostatalista comincia a preoccupare i poteri ex forti. Il Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore e , sia pur in tono minore, la Stampa, sono corsi in aiuto del già monopolista di Stato, privatizzato alla carlona, scalato, contro scalato e paralizzato da un debito monstre. Se è vero quel che c’è scritto nella bozza circolata tra le redazioni e attribuita al vice segretario generale di Palazzo Chigi (sic!), Telecom ha di che preoccuparsi. Il governo avrebbe in mente un decreto per avviare la banda larga, anzi “ultralarga”. E’ vero, il passaggio forzoso dal rame alla fibra ottica avverrà solo il 31 dicembre 2030, cioè in netto ritardo rispetto al resto d’Europa, ma per un’azienda che sta cercando di salvare a tutti i costi una tecnologia obsoleta, anche il 2030 è già oggi, perché il valore della rete, scritto nei libri contabili per 15 miliardi di euro, si riduce letteralmente alla velocità della luce.
Per la verità non è lo Stato ma il mercato ad aver già messo una pietra sopra. I soci e i manager di Telecom Italia non possono illudersi che abbia ancora un futuro il doppino di rame con il quale sono collegati a bassa velocità gli italiani. E chi può credere che gli utenti non abbiano bisogno di una velocità maggiore, come si sente dire per giustificare la difesa dell’esistente?
Le frecce di Telecom sono evidentemente spuntate. Può darsi che Renzi se la sia presa con l’ad Patuano per il suo rifiuto di accordarsi con la Cassa Depositi e Prestiti per Metroweb che la fibra ottica ce l’ha, soprattutto a Milano, grazie alla Fastweb di Scaglia. I dietrologi hanno abbondante pane per i loro canini, ma prima bisogna leggere che cosa sarà presentato al consiglio dei ministri di martedì e ragionarci sopra a mente fredda. Tuttavia, la vicenda della rete telefonica è l’ultima goccia su un vaso pieno di contraddizioni sulla politica industriale del governo.
Un giorno Renzi è liberista. Vende un pacchetto di Enel per fare cassa, così che il Tesoro scende al 25% nel gruppo elettrico a partecipazione statale. Cede a Hitachi non solo Ansaldo Breda, che non ha la massa critica per sopravvivere nel mercato dei treni ad alta velocità, ma anche Sts, leader mondiale nel segnalamento ferroviario (il boccone che davvero interessava al colosso nipponico). Apre le porte a cinesi, russi, arabi, indiani, oltre che ai famigerati “fondi locusta” anglo-americani.
Il giorno dopo il capo del governo fa lo statalista. Vuole quasi un’altra Iri (con la Cdp) e una Gepi riverniciata (con il fondo salva imprese). Nazionalizza l’acciaio di base e il Monte dei Paschi di Siena. Lascia credere che la nuova frontiera sia quella dei campioni nazionali non solo sostenuti, ma creati dalla mano pubblica. E’ vero che torna di moda lo “Stato imprenditore” e spopola l’economista italo inglese Mariana Mazzucato. Il suo libro non aggiunge nulla di veramente nuovo, ma quando si interpreta lo spirito del tempo nulla è più nuovo del già detto. Tuttavia il paragone con il ruolo del Pentagono nello sviluppo di internet è del tutto fuori luogo. Quel che abbiamo davanti in Italia è, semmai, il ritorno dello Stato ospedale. Il governo si è mosso caso per caso, ogni volta che una crisi industriale è diventata crisi sociale con evidenti ricadute politiche. Ilva e Mps sono due storie diversissime e non hanno nulla in comune salvo il fatto che paga Pantalone.
Liberista o statalista, dunque? Un po’ l’uno un po’ l’altro a seconda delle convenienze. Mai Renzi ha presentato, non diciamo in Parlamento, ma nemmeno nei talk show dei quali è ospite fisso, una strategia industriale. Le privatizzazioni avvengono solo per inviare a Bruxelles dei conti pubblici un po’ più credibili. Un errore già compiuto negli anni ’90 che l’economia italiana ha pagato duramente, perché il sollievo del debito è stato effimero, bruciato da una indomabile fame di spendere per acquisire consenso e poi dalla grande crisi finanziaria. Mentre gli impianti industriali non ci sono più; non solo quelli superati, anche quelli che potevano funzionare bene. E’ il caso dell’Ilva. Ma la storia più scandalosa è proprio il gran pasticcio delle telecomunicazioni. E l’Italia ha perso anche il vantaggio competitivo acquisito negli anni ’90 nella telefonia mobile.
Barelliere o ragioniere, lo Stato italiano non è più da tempo, almeno dagli anni ’70, né imprenditore né innovatore. Ed è del tutto insensato negarlo o, peggio ancora, cercare di recuperare il tempo irrimediabilmente perduto. L’industria si è ristrutturata, ha versato lacrime e sangue, ma ha superato la crisi esportando e organizzandosi secondo il modello delle “nicchie di eccellenza”, come le chiama Marco Fortis. Senza che lo Stato ci mettesse bocca, ed è bene che sia così. Quel che invece il governo può e dovrebbe fare è sostenerle sui mercati esteri, garantire credito e sostegno finanziario, fare sistema insomma, certo non suggerire strategie produttive.
Molto di più c’è da intervenire nel terziario, vera palla al piede dell’economia italiana. Però qui ci vuole davvero un progetto. Dalla crisi i servizi escono a pezzi. Quelli pubblici perché non sono stati rinnovati, gli altri perché hanno seguito la vecchia massima di pubblicizzare le perdite e privatizzare i profitti (anzi le rendite come nel caso della scala mobile per le tariffe autostradali). Adesso Renzi lancia la sua sfida in un settore strategico come le telecomunicazioni? Se è così, fa bene. Naturalmente deve tener conto degli interessi di tutti i soggetti che vi operano, privati e pubblici, ex monopolisti e sfidanti. Quel che sta accadendo su Rai Way non depone a favore di una linea equilibrata: vengono messe sul mercato le torri di trasmissione, ma fino al 49% il che abbassa il loro valore; si blocca Fininvest per dar retta non a una logica industriale, ma al vociare degli anti-berlusconiani; e magari qualcuno cercherà di rigirare tutto a Telecom in cambio di un ulteriore rinvio della fibra ottica. Alla fine, martedì verranno presentate soltanto delle linee guida senza date per il switch off. Tanto rumore per nulla. Se è così, sono manovre di piccolo cabotaggio.
Renzi ha dimostrato di essere un abile tattico, ma non ha mai rivelato al mondo se ha anche una strategia di medio periodo sulle grandi partite che riguardano il futuro del paese. Può darsi che si sia tenuto gli assi per sorprendere tutti. C’è da augurarselo, perché la cosa peggiore è andare avanti a zig zag, in risposta alle emergenze e con manovre dove quel che conta è la politique politicienne. Sarebbe, questo sì, un tuffo nel passato, in quella Italia che proprio Renzi voleva rottamare.