Perché le donne guadagnano, in media, meno degli uomini? Il tema del gender gap salariale, dello scarto fra retribuzioni legato al «genere», è di colpo al centro del dibattito americano. Hillary Clinton ha cominciato proprio così la sua pre-campagna elettorale. Nel discorso della settimana scorsa alla Conferenza per le donne della Silicon Valley, l’ex segretario di Stato americano ha detto infatti due cose: che le donne sono ancora troppo poche nei settori chiave della ennesima (4.0?) rivoluzione tecnologica e industriale; e che non ha senso che continuino ad essere pagate (in questo caso Hillary parlava alle eccellenze tecnologiche americane) meno dei loro colleghi maschi. I dati, anche se vanno letti con intelligenza, confermano che è generalmente così.
Sulle ragioni, democratici e repubblicani si dividono. La notizia è che Hillary, prima ancora di annunciare la sua corsa elettorale, ha scelto di farne una battaglia. E ciò significa che ha deciso di guardare alle presidenziali del 2016 attraverso l’elettorato delle donne, che sono poi più della metà di chi dovrà scegliere (probabilmente) fra una moglie Clinton e un fratello Bush: una competizione quasi dinastica nel cuore della democrazia americana.
Otto anni fa, la campagna di Hillary non era cominciata dalle donne. Oggi sarà così, almeno a giudicare da questa fase di pre-annuncio che vedrà Clinton immersa fino al collo, per tutto il mese di marzo, in una serie di eventi «women-only»: dal pranzo di gala della Emily’s list – lobby per eccellenza delle donne democratiche in politica – al ventennale della grande conferenza sulle donne di Pechino (1995). La Conferenza dove Hillary pronunciò una frase rimasta abbastanza famosa: «Facciamo in modo, una volta per tutte, che i diritti umani siano diritti delle donne e che i diritti delle donne siano diritti umani».
Bene. Perché poi Hillary, più che su Bill, può questa volta contare anche su Chelsea, figlia unica e ormai giovane madre. Con Chelsea e con Melinda Gates – la donna più rilevante della filantropia americana – Hillary presenterà nei giorni prossimi a New York il rapporto della Fondazione Clinton. Su cosa? Domanda superflua: sui vari aspetti del «gender gap», incluso il dislivello fra ciò che uomini e donne riescono a portarsi a casa.
Qui, un aiuto importante viene anche da Christine Lagarde, direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale. Lagarde ha appena pubblicato un articolo in cui sottolinea, sulla base di un ultimo studio dell’Fmi, che far lavorare di più le donne (facendole guadagnare di più) conviene: non alle donne soltanto, ma alle economie nel loro insieme. Non è qualcosa che non sapessimo già. La novità sta nell’importanza dell’impatto stimato (anche se stime del genere sulla crescita «inespressa» del Pil sono sempre da prendere con le molle, mi pare) e sta nel fatto che Lagarde confermi così, con veloce autorevolezza, l’agenda attuale di Hillary.
Più difficile dire, onestamente, se possa essere considerato di aiuto il discorso a Hollywood di Patricia Arquette, vincitrice dell’Oscar quale migliore attrice non protagonista. Ricevendo il suo premio, Patricia ha lanciato un appello per la parità di retribuzione delle donne, partendo dalle artiste. Cosa che ha suscitato un bel po’ di polemiche e che a me ha ricordato l’epica battaglia di Billie Jean King, grande tennista del secolo scorso, per ottenere gli stessi premi a Wimbledon fra uomini e donne. Battaglia vinta, in quel caso.
Vedremo sul resto. Che le donne, in media, guadagnino meno degli uomini lo indicano tutte le statistiche: gran parte dell’Europa, Italia in testa (o in coda), conferma il problema. La ragione non è che, a parità di professione, ore lavorate e condizioni socio-economiche, le donne americane ed europee vengano di norma pagate meno degli uomini. Il motivo è che le donne non riescono a difendere negli anni tale parità di partenza. Per una serie di ragioni: dai figli, a una minore attitudine a negoziare la propria posizione, alla difficoltà di salire i vari gradini della carriera professionale. In modo ancora poco trasparente, il sistema retributivo continua nei fatti a penalizzare le donne. E penalizzando le donne, riduce anche il dinamismo delle nostre economie.
Dall’America viene quindi la spinta a considerare la partecipazione paritaria delle donne, in politica e al mercato del lavoro, come una misura per la crescita: una misura fra le migliori. Ciò che appare acquisito sulla carta nelle società occidentali, in realtà non lo è ancora; non lo è certamente da noi – al di là del numero di ministri o della composizione dei board delle imprese; e non lo è negli Stati Uniti.
Hillary Clinton fa leva sulle donne puntando alla presidenza degli Stati Uniti. Non è una partita così semplice da impostare, in un Paese in cui le nuove generazioni, quella dei Millennial, sembrano distanti, quasi allergici, a messaggi che possano essere definiti «femministi».
Hillary Clinton deve sfuggire a questa trappola, il vecchio femminismo. Sta cercando un linguaggio nuovo – fatto di diritti ma anche di interessi – per parlare alle donne non di donne soltanto ma anche del futuro, attraverso di loro, della società americana. Il suo tentativo è chiaro ed esplicito. Così esplicito che alla Silicon Valley Hillary Clinton ha ricordato – un po’ scherzando e un po’ ammonendo le sue potenziali elettrici – le parole di Madeleine Albright, prima di lei segretario di Stato: «C’è un posto speciale all’inferno per le donne che non aiutano altre donne».
Clicca qui per leggere l’articolo originale pubblicato il 2 marzo 2015 sul quotidiano La Stampa