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Ventimila leghe sotto i mari: Il paradosso della liquidità

Indosso il mio casco da palombaro e mi preparo a una di quelle immersioni a ventimila leghe sotto il mare dei mercati, scarso di fiato come sono e persino pauroso di confrontarmi col buio dei recessi dell’infrastruttura finanziaria. Mondo alieno, dove vivono e prosperano creature meravigliose e terrificanti, e dove la pressione atmosferica può schiacciarti in un istante, se solo provi a violare le regole non scritte della fisica finanziaria.

Mi convinco a far questo viaggio perché non mi spiego come sia possibile che l’abbondante liquidità del nostro tempo, generosamente provvista dalle banche centrali di tutto il mondo, abbia generato il paradosso che la liquidità di tanto in tanto evapori.

Ce n’è talmente tanta, di liquidità, che sparisce, come testimonia la ricca aneddotica di questi mesi e che un recente intervento di Chris Salmon, Executive Director Markets, della Bank of England (“Financial Market Volatility and Liquidity – a cautionary note”) mi permette di apprezzare in tutta la sua spaventosa pervasività.

Leggo e rileggo le otto pagine dello speech e mi convinco che la spiegazione sia assai semplice: la liquidità obbedisce anch’essa alle implacabili regole non scritte della fisica finanziaria. L’abbondanza la rende meno preziosa, e quindi sottile fino a diventar gassosa: volatile come una gigantesca bomba instabile. La fisica finanziaria, inoltre, insegna che la fragilità aumenta col crescere dell’euforia. E quanto a quest’ultima, le evidenze delle cronache ci mostrano con chiarezza come stia ormai ben oltre le stelle, pronta a tramutarsi in tedio.

Non ci sarebbe altro da aggiungere, a dirla tutta. Ma a che mi servirebbe un blog se non compiessi viaggi straordinari che altrimenti mi verrebbero preclusi? Che poi quel conta non è tanto conoscere la destinazione, di tale peregrinare, ma il viaggio stesso, assai istruttivo, che mi sembra giusto condividerle con voi.

Il viaggio comincia con un monito, che Salmon rivolge a se stesso prima ancora che al suo uditori: “Ci sono ragioni per essere cauti”, che mi sembra la perfetta epigrafe per salutare la mia immersione e che mi risuonerà nelle orecchie per tutta la durata del viaggio, con il suo corollario: “I recenti periodi di volatilità nei mercati finanziari suggeriscono che ci sono ragioni per essere cauti circa la robustezza della liquidità nel cuore dei mercati finanziari”.

Traduco l’originale core contenuto nella dichiarazione di Salmon con cuore, perché mi sembra più adatto a rappresentare l’organismo finanziario, che molti immaginano come freddo affastellarsi di numeri e procedure, come esso in effetti appare, ma che me pare somigli a una cosa vivente e come tale soggetto a malattia e morte, per quanto si tenda costamente a dimenticarlo.

Salmon inizia il suo racconto ricordando come alla metà dell’estate scorsa la volatilità nei mercati finanziari fosse eccezionalmente bassa, sia rispetto agli anni della crisi che al periodo che l’ha preceduta.

Tale circostanza viene spiegata con il basso livello di incertezza sugli andamenti macroeconomici e “le straordinarie politiche di allentamento delle banche centrali”. Le varie forward guidance, peraltro, avevano contribuito a consolidare negli operatori la convinzione che i tassi sarebbero rimasti breve a lungo, incentivando la loro naturale predisposizione alla ricerca di rendimenti, che a sua volta ha depresso la volatilità e compresso il premio del rischio “in un circolo auto-rinforzantesi”.

E tuttavia tale idilliaca situazione è stata pesantemente turbata da alcuni episodi di estrema volatilità che ha danneggiato la liquidità dei mercati. La volatilità implicita è arrivata, in questi momenti, al livello pre-crisi .

“Abbiamo assistito – ricorda ancora – a movimenti molto grandi nei mercati finanziari negli ultimi sei mesi”. Il riferimento è a due eventi in qualche modo traumatici: la pubblicazione, il 15 di ottobre, dei dati sulle vendite al dettaglio negli Usa, più deboli del previsto, e la decisione della banca centrale svizzera di rimuovere il suo peg sull’euro del 15 gennaio scorso.

I due eventi hanno avuto diversi drivers, ma in comune hanno avuto che i mercati sono entrati in grave fibrillazione: le reazione a tali notizie è stata senza precedenti, per le conseguenze che ha avuto sull’equilibrio intra-day dei mercati.

In particolare, quando il 15 ottobre uscirono i dati Usa, il decennale americano vide schizzare il suo rendimento di 37 punti base entro la prima ora dalla diffusione della notizia, persino peggio di quanto accadde all’epoca del fallimento di Lehman.

Mi viene da pensare che di parecchio deve essere aumentata la paura degli operatori se un semplice dato macro è capace di far più danni del fallimento di una banca d’affari. Ma mi dico che questa deve essere la conseguenza di una sensibilità esasperata, cui la liquidità e le varie forward guidance devono aver esacerbato invece di lenirla. Quando si vive in tempi straordinari, come quelli dei vari QE, l’ordinario è capace di spaventare assai più di quanto dovrebbe.

Il secondo episodio, lo sganciamento del Franco svizzero dall’euro, condusse invece a un apprezzamento della moneta elvetica del 14%, ma nell’arco intraday, si raggiunse un apprezzamento superiore.

“Questi eventi – nota Salmon – possono implicare che un numero crescente di asset di mercato siano diventati più sensibili alle notizie, e quindi un dato shock può causare una maggiore volatilità”.

Alcune analisi statistiche confermano questa sensazione, fino a farla diventare un pattern che pare sia applicabile a una classe assai affollata di asset, fra i quali anche le quotazioni delle imprese americane in borsa. Ma soprattutto le rilevazioni mostrano che tali fibrillazioni hanno finito con l’avere effetto anche sul più delicato e portante mercato internazionale: quello dei titoli del Tesoro Usa.

Mi rassicurare la circostanza che “in entrambi i casi hanno agito forza stabilizzanti” che hanno riportato la normalità nei mercati. Ma mi rassicura meno osservare che siano gli stessi operatori di mercato, che hanno fatto fibrillare la volatilità, a ristabilire la normalità. Esattamente come accade a un bambino che fa i capricci, capace di piangere e poi ridere nell’arco di pochi minuti. L’idea che il mercato finanziario sia un pestifero neonato rende la mia immersione vagamente inquietante. Ma decido di fidarmi del mio inconsueto Virgilio inglese e provo ad andare ancora più a fondo.

In particolare mi convincono a farlo alcune domande che il banchiere rivolge a se stesso: che lezioni abbiamo imparato? Perché la liquidità e la volatilità si sono evolute in questo modo? E infine: e adesso?

Le condizioni macroeconomiche globali, risponde, non devono essere così chiare, anche a causa del brusco rovinarsi dei corsi petroliferi.

A tale confusione si è aggiunto, non necessariamente come una attenuante, l’attivismo delle banche centrali. Fino ad oggi 24 di loro hanno tagliato i tassi e adesso anche la Bce, insieme con Fed, BoE e la BoJ, li ha portati sostanzialmente interritorio negativo. “Tale decisioni hanno fatto aumentare gli interrogativi sulle modalità di funzionamento dei mercati quando i tassi negativi persistono alcuni anni”.

La combinazione delle incertezza macro e dell’azione delle banche centrali ha sortito come conseguenza che il pensiero degli operatori – tassi bassi ma positivi – sia ormai stato spinto verso una zona assai meno conosciuta dove la volatilità alberga come un ospite inatteso e indesiderato.

Mi accorgo che sono meno solo di quanto stimassi, in questo viaggio in terra incognita e oscura. Ma chissà perché tale compagnia m’inquieta anziché darmi sollievo.

E l’inquietudine aumenta quando leggo che per provare ad avere una spiegazione “dobbiamo guardare altrove” e che “il posto ovvio dove guardare è la struttura del mercato, visto che i mercati FICC (fixed income currency commodities) stanno andando verso considerevoli cambiamenti”.

Il primo cambiamento del quale Salmon ci informa è che “i market makers sono diventati più riluttanti a impiegare capitale nel warehousing risk”.

Iniziano a fischiarmi le orecchie. La pressione della fisica finanziaria sta diventando fastidiosa. Scorro mentalmente il mio vocabolario, largamente incompleto, e mi ricordo che il warehousing risk corrisponde a quella pratica che gli intermediari finanziari mettono in campo ogni qual volta comprano un asset in anticipo rispetto a quando sarà reso disponibile per il mercato, provvedendo alle risorse necessarie o con capitale proprio o, più frequentemente, emettendo debito. Ciò significa che fin quando l’asset non viene liquidato il rischio rimane nella disponibilità del market maker. Che, a quanto pare, è sempre meno disposto a correrlo.

“Alcuni hanno suggerito che ciò rifletta una combinazione di ridotta tolleranza al rischio e dell’impatto della nuova regolazione finanziaria”, ma quel che conta rilevare è che tale riluttanza ha provocato la concentrazione del lavoro nei mercati FICC in meno intemediari, che ha finito con l’amplificare i problemi di liquidità nei periodi di stress”.

Scorgo la fisionomia di fantastici mostri marini, mentre continuo la mia discesa lungo gli abissi della finanza contemporanea.

E ancora non sono neanche a metà del viaggio.

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