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Divorzio “breve”, una sconfitta per l’Italia

Per quella che può apparire una semplice coincidenza (ma in un’ottica di fede, che per un cattolico è l’unica che conti, niente è casuale), la legge approvata a mani basse (398 voti a favore e solo 28 contrari) che in Italia ha ufficialmente introdotto, dopo il divorzio “facile”, anche il cosiddetto divorzio “breve”, è stata varata lo stesso giorno in cui Papa Francesco all’udienza generale diceva: “Ma pensiamo anche alla recente epidemia di sfiducia, di scetticismo, e persino di ostilità che si diffonde nella nostra cultura – in particolare a partire da una comprensibile diffidenza delle donne – riguardo ad un’alleanza fra uomo e donna che sia capace, al tempo stesso, di affinare l’intimità della comunione e di custodire la dignità della differenza. Se non troviamo un soprassalto di simpatia per questa alleanza, capace di porre le nuove generazioni al riparo dalla sfiducia e dall’indifferenza, i figli verranno al mondo sempre più sradicati da essa fin dal grembo materno. La svalutazione sociale per l’alleanza stabile e generativa dell’uomo e della donna è certamente una perdita per tutti. Dobbiamo riportare in onore il matrimonio e la famiglia! “. Si tratta di una coincidenza che fa una certa impressione, per il semplice motivo che rende in modo plastico la distanza siderale che separa la politica, e con essa almeno una parte consistente della società, da quel mondo di valori e tradizioni di cui il cattolicesimo è stato il lievito per secoli e che nel giro di pochi decenni è stato letteralmente frantumato sotto i nostri occhi. E dire che c’è stato pure chi, su certa stampa, alla prospettiva dell’elezione di Mattarella si sperticò le mani sottolineando l'”accoppiata” Palazzo Chigi e Quirinale, ovvero il fatto che le due poltrone più importanti delle istituzioni sarebbero state occupate da due cattolici. Come a dire, se non una garanzia, quanto meno una certa attenzione alle tematiche che più stanno a cuore al mondo cattolico. Sì, come no. Eccoci serviti. Come nel ’78, all’epoca del referendum sull’aborto, quando a Palazzo Chigi e al Quirinale c’erano, rispettivamente, Andreotti e Leone, entrambi cattolici. Sono trascorsi quasi quarant’anni ma la musica, spiace dirlo, non è cambiata. E siamo solo all’inizio, perché sulla rampa di lancio ci sono altri quattro disegni di legge che, se diverranno leggi dello Stato, avranno un effetto ancora più devastante. Stiamo parlando del ddl Cirinnà sulle unioni civili, del ddl Scalfarotto sull’omofobia, del ddl Fedeli sull’introduzione della teoria del gender nelle scuole e, dulcis in fundo, di un ddl sull’eutanasia. Per la cronaca, a parte quello sull’eutanasia di marca radicale, tutti gli altri ddl sono targati Pd. Ma tranquilli, come ebbero a dire gli estimatori dell’”accoppiata” di cui sopra, “il varo di una normativa contro la Costituzione e contro la famiglia naturale appare francamente poco probabile”. Quel che invece è certo è il disastro dell’introduzione del divorzio “breve”. Con buona pace del vescovo di Palestrina (e non solo), che in controtendenza rispetto alla Cei che lo ha definito un “incivile traguardo”, se n’è uscito dicendo che “il divorzio breve può diventare una forma di giustizia” (sic!), la norma varata dal Parlamento italiano muta radicalmente il diritto di famiglia, come aveva lucidamente sottolineato il direttore della Nuova Bussola Quotidiana, Riccardo Cascioli: “finora il divorzio, per quanto ammesso e regolato dalla legge, nel nostro ordinamento è sempre stato concepito come un “male necessario” che risolve questioni laddove non si è riusciti a vivere il “bene” del matrimonio. In altre parole: per il nostro diritto di famiglia il matrimonio resta il bene da perseguire, e il divorzio quasi una deroga per situazioni ingestibili. Per questo era previsto anche un congruo tempo di separazione per dare la possibilità di riconciliarsi. Con il “divorzio breve” invece questo tempo praticamente si azzera, e in tal modo matrimonio e divorzio vengono a trovarsi praticamente sullo stesso piano dal punto di vista del valore: un colpo mortale per la famiglia.”. Questo è il punto vero: non è per niente una questione tecnica il fatto che il tempo per divorziare viene accorciato da tre a un anno (sei mesi in caso di rottura consensuale). Qui il punto vero è un altro, e consiste nell’equiparare il matrimonio al divorzio il che, unitamente alla norma precedente del divorzio “facile” che ha di fatto “privatizzato” il matrimonio dando la possibilità di divorziare con un semplice verbale davanti a due avvocati, rappresenta una rivoluzione antropologica e morale nella misura in cui sancisce la dittatura dell’Io sul Noi. E quando dico Noi il discorso non riguarda solo la coppia ma anche gli eventuali figli. Detto altrimenti, il divorzio “breve” è la pietra tombale del principio di responsabilità, quel principio per altro laicissimo e niente affatto confessionale, che stabilisce il limite superato il quale cessa la vita infantile e inizia quella adulta, dove per adulta s’intende una vita in cui non tutto può essere reversibile (ma questo non autorizza nessuno, sia chiaro, a dire in modo pretestuoso che se nulla è reversibile allora questo deve valere anche per un matrimonio in crisi, non confondiamo le carte in tavola). Per un motivo molto semplice: perché la vita stessa non è reversibile, nemmeno per un istante. E’ se è vero che non si può imporre per legge ad una relazione di durare, come ha scritto Michela Marzano su Repubblica, non sta scritto da nessuna parte che si debba sancire per legge che l’amore può finire e con esso le relazioni. Un paese che abbia a cuore il suo futuro, tanto più il nostro dove non si fanno più figli, dovrebbe avere la massima cura nel tutelare le famiglie e la stabilità dei matrimoni, puntando innanzitutto a che un matrimonio in crisi si possa ricostruire anziché privilegiare le aspettative dei singoli. Una società individualista non ha futuro.


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