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Donne ricerca e pregiudizi. Il piccolo caso dell’ICGEB di Trieste

Lo scorso 5 aprile, il quotidiano Die Zeit pubblicava un’incisiva intervista sulla condizione e sul ruolo delle donne nella ricerca scientifica che mi pare di interesse più generale per il taglio e le opinioni sostenute. Il titolo “Steht nicht so viel vorm Spiegel!” (Non state troppo davanti allo specchio!), già da solo poteva scatenare un putiferio. Peccato che a parlare – e con una certa veemenza – fosse una donna: Christiane Nüsslein-Volhard, premio nobel per la medicina nel 1995.

La biologa tedesca non nega esistano ancora pesanti pregiudizi di genere, lei stessa dice di esserne stata fatta oggetto nel passato. Tuttavia, afferma, non sono certo solo questi a precludere alle donne la carriera. Piuttosto, sono spesso le stesse ricercatrici, con le proprie scelte, ad autoescludersi. Una carriera scientifica richiede un grado di dedizione e determinazione – anche di cattiveria, se vogliamo – che rasentano l’ossessione. Senza mediazioni, né compiacenza alcuna per la tesi in voga della conciliazione tra vita privata e lavoro, Christiane Nüsslein-Volhard pensa in primo luogo al carico di responsabilità famigliari e sociali normalmente attribuito alle donne. Meglio ancora, che le donne stesse scelgono di sostenere. E cita ad esempio un’amica e collega americana che decise, dopo la nascita del figlio, che non avrebbe più cucinato. Detto fatto, da allora in poi la famiglia si sarebbe nutrita di cibi precotti e da asporto. Questa “semplice” scelta consentì alla scienziata di guadagnare due ore in più di lavoro ogni giorno. Insomma, l’eccellenza non accetta compromessi. Personalmente, credo che sia vero. Certo non sarà simpatica a molti, Nüsslein-Volhard, ma non manca di pragmatismo. In apparente contraddizione con quanto afferma, ha costituito una fondazione che fornisce aiuto domestico alle ricercatrici che hanno figli.

A pochi giorni di distanza, mentre riflettevo sul peso dei pregiudizi, mi imbatto ancora in un’intervista. Stavolta un’astrofisica: Jocelyn Bell Burnell. Irlandese, nel 1967, mentre lavorava alla tesi di dottorato a Cambridge, Bell Burnell scopre le pulsar, stelle “pulsanti” e incredibilmente dense che si formano – mi dice wikipedia – quando una supernova collassa. La scoperta meritava il nobel che fu in effetti assegnato nel 1974. Peccato che la giovane Jocelyn non fosse tra i premiati. A Stoccolma andarono infatti Anthony Hewish, il suo relatore, e un altro astrofisico di Cambridge, Martin Ryle. La cosa suscitò un certo sconcerto nel mondo accademico, e Bell Burnell, al contrario di altre scienziate nella storia, non è stata scippata della paternità – ops, maternità – della sua scoperta. Come molte donne che si sono affermate, anche Bell Burnell tende al pragmatismo senza recriminazioni. In modo molto semplice, dice che quel che le accadde rispecchiava il comune sentire su cosa volesse dire fare scienza allora. C’era un “senior man”, ed era  sempre un uomo,  sotto di lui dei junior che nessuno si aspettava dovessero pensare autonomamente. Semplicemente, degli esecutori. Anche lei, d’altronde, come la più fortunata Nüsslein-Volhard, conosce sulla sua pelle il peso del pregiudizio maschile, soprattutto nell’attribuzione degli incarichi. I più prestigiosi, quelli con maggiore visibilità, spesso vanno ancora agli uomini. Difficile – lo riconosce – conciliare famiglia e lavoro. Come Nüsslein-Volhard, anche l’astrofisica è oggi attivamente impegnata a sostenere le giovani colleghe e a promuovere politiche e iniziative per accrescere il numero di donne – a partire dagli studi – nei campi della scienza, della matematica, dell’ingegneria.

La lista delle donne che la scienza sembra aver dimenticato è lunga. Senza neanche troppa fatica, ho scoperto, tra le altre, Esther Lederberg, microbiologa e pioniera della genetica batterica, i cui studi contribuirono significativamente al lavoro di Joshua Lederberg – suo primo marito – sulla replica in piastra, poi premiato con il nobel per la medicina nel 1958 assieme ad altri due scienziati. Par di capire perché il matrimonio è naufragato. Il valore di Esther Lederberg non fu mai però completamente riconosciuto neanche a livello accademico. Nel 2006, durante il suo funerale, il collega Stanley Falkow, ricordò come Lederberg a Stanford dovesse combattere per diventare professoressa associata, malgrado meritasse senz’altro la “full professorship”. Le donne, conclude Falkow, ce l’hanno dura nell’università. Permettetemi la traduzione un po’ “libera”. Andando ancora più indietro, potrei soffermarmi più a lungo sulla storia della fisica Chien-Shiung Wu, reclutata per il  Manhattan Project; l’austriaca Lise Meitner, anche lei impegnata nella fisica nucleare, scippata del dovuto riconoscimento per il contributo portato alla teoria sulla fissione nucleare, cui lavorò per anni con il chimico Otto Hahn, che pubblicò senza menzionarla come co-autrice dello studio. Rosalind Franklin, che con la sua immagine del DNA fu essenziale ai ben più noti Watson, Crick e Wilkins per decifrarne la struttura e i cui nomi ogni studente delle superiori oggi associa alla genetica. Sempre più in là nel tempo, la genetista statunitense Nettie Stevens che nell’ottocento scoprì la base cromosomica nella determinazione del sesso. Chiaramente, il nobel andò ad altri. Sarebbe interessante procedere oltre e continuare a identificare donne che si siano distinte nelle scienze senza che ne fosse riconosciuto il ruolo, in un doveroso tributo al contributo del genio femminile allo sviluppo intellettuale dell’umanità. Questo non è il mio campo, e mi debbo fermare. Chissà qualcun altro non raccolga la sfida.

Un episodio recentissimo però lo voglio ricordare. Sempre quest’anno, nel mese di marzo, la stampa nazionale ha dato grande risalto, a ragione, ad uno studio tutto italiano sul virus dell’HIV, apparso sull’autorevole rivista scientifica Nature e collegato ad un lavoro del 2013, a suo volta pubblicato da Cell Host & Microbe. Con il titolo “Risvegliare il virus HIV latente e sopprimerlo con i farmaci”, l’ufficio stampa dell’ICGEB – International Center For Genetic Engineering and Biotechnology, dell’AREA Science Park di Trieste, un’eccellenza della ricerca italiana, dava notizia del primo, avanguardistico studio; mentre quello più recente, destinato a pesare per le sue possibili implicazioni terapeutiche nella ricerca sull’AIDS, pubblicato da Nature chiariva come il virus dell’HIV “letteralmente sparisce dal radar” rimanendo completamente latente all’interno del DNA delle cellule che ha invaso. La prima ricerca era guidata e condotta da Marina Lusic – oggi a Heidelberg, in Germania – e Bruna Marini, rispettivamente prima ed ultima firma dello studio pubblicato insieme ad altri ricercatori dell’istituto diretto da Mauro Giacca. Il secondo studio vedeva ancora il ruolo fondamentale delle due ricercatrici, che insieme hanno ideato una tecnica di microscopia ad alta risoluzione che ha permesso, letteralmente, di vedere il virus.

Per un curioso riflesso organico, e sarebbe interessante studiarne i motivi, i media italiani hanno però sostanzialmente ignorato Marina Lusic e Bruna Marini, per lanciarsi in una girandola di interviste all’evidentemente più affascinante Giacca.

Che sia un bell’uomo, non mettiamo in dubbio. Che fosse il caso di dar spazio alle due colleghe autrici dello studio invece tendo a pensarlo.


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