Il 2 aprile, come noto, è stato raggiunto a Losanna l’accordo quadro sul programma nucleare iraniano, primo passo per un’intesa che dovrebbe essere sottoscritta entro il prossimo mese di giugno. Ha già giustamente notato su queste pagine Stefano Cingolani che, gli effetti geopolitici dell’intesa andrebbero decisamente ridimensionati: «Primo non è ancora una vera intesa, ma una cornice sui “parametri chiave”. Secondo, ci vorrà fino al 30 giugno per esaminare i dettagli e stipulare un “accordo quadro”. E proprio nei dettagli s’annida Satana» (Tutti gli effetti geopolitici dell’intesa sul nucleare iraniano, in Formiche.net, 3 aprile 2015). Kerry e Barack Obama hanno invece esultato e, con loro, anche L’Osservatore Romano che, in prima pagina, ha enfaticamente spiegato: «Se l’accordo definito dovesse divenire operativo, l’attività nucleare iraniana verrà monitorata per dieci anni» (Raggiunta l’intesa sul nucleare iraniano, 4 aprile 2015, p. 1)
Ha rilevato Cingolani come invece, sul piano tecnico, i termini dell’accordo siano piuttosto dubbi ed, a dimostrarlo, ci sono «alcune cifre chiave: l’Iran manterrà 6.104 delle attuali 19mila centrifughe e si impegnerà a non arricchire l’uranio oltre il 3,67 per cento per almeno 15 anni. Inoltre si impegna a ridurre il suo attuale stock di 10mila chili di uranio arricchito a non più di 300 chili, arricchiti al massimo al 3,67 per cento».
Con l’accordo di Losanna Obama ha rovesciato la diplomazia americana in Medio Oriente, “sdoganando” gli ayatollah, ma quale il vero motivo? Potrebbe essere che il presidente USA abbia l’intenzione di fare dell’Iran una “sponda atlantica” nel mondo islamico, in particolare contro il Califfato sostenuto dai sauditi. Dopo l’accordo sul nucleare si è lanciato in dichiarazioni auto-celebrative ed eccessivamente ottimistiche sul regime di Rouhani ma, permettetemi, di non nutrire molta fiducia sulle sue capacità in politica estera. Del resto ricordiamo ancora cosa disse al Cairo sull’Egitto poco prima delle c.d. “primavere arabe”?
I moniti all’Iran di Giovanni Paolo II
Piuttosto, vengono in mente le parole che, pochi mesi prima di morire, cioè il 29 ottobre del 2004, San Giovanni Paolo II rivolse all’allora neo-nominato ambasciatore dell’Iran presso la Santa Sede, Mohammad Javad Faridzadeh. Im occasione della consegna delle lettere credenziali il Papa rivolse alle autorità iraniane un discorso i cui argomenti centrali furono significativamente la libertà di religione come diritto umano «fondamentale» e la lotta al terrorismo come priorità per arrivare ad un «ordine internazionale equilibrato». Al diplomatico, che ha lasciato il suo incarico presso la Santa Sede solo nel 2013, Papa Wojtyla ricordò anche la necessità per il suo Paese di rispettare gli accordi internazionali, in particolare quello sulla non-proliferazione nucleare, che vedeva già allora la Repubblica islamica in contrasto con l’Aiea, l’agenzia Onu che controlla l’uso dell’energia atomica. «Certamente – aggiunse infatti Wojtyla – l’edificazione della pace presuppone la fiducia reciproca, per accogliere l’altro non come una minaccia ma come un interlocutore, accettando parimenti i vincoli e i meccanismi di controllo che implicano gli impegni comuni quali i trattati e gli accordi multilaterali, nei diversi ambiti delle relazioni internazionali che concernono il bene comune dell’umanità, come il rispetto dell’ambiente, il controllo del commercio delle armi e della non proliferazione delle armi nucleari, la tutela dei bambini, i diritti delle minoranze».
Il discorso di Giovanni Paolo II si concluse quindi con un esplicito riferimento ai cattolici iraniani, come anche agli appartenenti alle altre confessioni cristiane, per i quali il Pontefice rivendicò «la libertà di professare la loro religione», anche attraverso «il riconoscimento della personalità giuridica delle istituzioni ecclesiastiche, agevolando così il loro lavoro in seno alla società iraniana».
Da Ahmadinejad a Rouhani
Pur se gli Stati Uniti rimangono il soggetto “extra-regionale” di gran lunga più influente tra tutti i principali attori mediorientali, non ci siamo finora accorti di un impegno politico-pubblico volto a preservare la libertà religiosa in Iran. Obiettivo che sarebbe in questo momento di non impossibile raggiungimento, giovandosi dello sforzo intrapreso dalla nuova leadership iraniana per sottrarsi alla condizione d’isolamento internazionale nella quale ancora rimane.
L’attuale presidente della Repubblica islamica dell’Iran, Hassan Rouhani, appare a non pochi osservatori un “moderato” nei confronti dei cristiani ma, come ha avvertito il Christian Telegraph, questa impressione potrebbe essere solo apparente. Dalla sua elezione lo scorso anno, infatti, si sono verificati nel Paese costanti episodi di minacce e terrore contro i cristiani. Un rapporto delle Nazioni Unite dell’ottobre 2014, riportando la notizia dell’arresto di tre cristiani accusati di «agire contro la sicurezza nazionale» e, contemporaneamente, della condanna a morte di altri tre fedeli, ha definito questa persecuzione ancora più pericolosa di quella del periodo di Ahmadinejad. La pratica religiosa diversa da quella di Stato, ricorrendo al presunto reato di “islamofobia”, è considerata tout court una minaccia alla sicurezza del Paese.
La politica estera fallimentare di Obama
Oltre che sul piano della libertà religiosa nel mondo, la “dottrina Obama” in politica estera è definita un disastro dalla grande maggioranza degli americani. Stando ad esempio all’ultimo sondaggio di una certa estensione, promosso nell’ottobre 2014 dal “Wall Street Journal-NBC tv” il 57% dei cittadini statunitensi giudica negativamente l’operato del leader democratico, con il solo 37% che apprezza invece modo e risultati del “comandante in capo” di gestire le varie crisi mondiali nelle quali gli USA sono intervenuti. La stima generale verso Obama, quindi, è ai minimi storici del 41% e, in politica internazionale, sono soprattutto i fatti di cronaca provenienti dall’Iraq, dalla Siria e dalla Libia a parlare.
«Il problema con Barack – ha commentato al proposito Glauco Maggi – è che lui, le guerre, non le vuole mai fare. E come si fa a non essere d’accordo in linea di (illusorio) principio? Se già sono in corso lui le dichiara “finite”, e per le altre che eventualmente possono spuntare qua e là nel mondo (Ukraina? Nord Corea? Cina?) ha in realtà un’unica strategia, che è quella della diplomazia. Cioè delle sue parole di appello alla “comunità internazionale”. Obama, dalla “mano tesa all’Iran” alle sanzioni leggere contro Mosca, rifiuta di credere alle parole e gli atti degli avversari. Teheran procede con i suoi piani nucleari, e minaccia di annientare Israele?» (Gli americani bocciano Obama: “Politica estera fallimentare”, in Libero quotidiano, 29 Ottobre 2014).
La politica estera di Obama è un florilegio di tali e tanti fallimenti che, nel 2016, i repubblicani candidati alla Casa Bianca avranno l‘imbarazzo della scelta degli argomenti per inchiodare i democratici. Nel frattempo, però, come immagina Marcello Sartori nella vignetta a corredo di questo pezzo, speriamo che l’ennesimo fallimento di O-BAM-a non sia proprio su quest’ultimo accordo nucleare…