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I bilanci delle banche centrali arrivano a 22 trilioni

Quest’epoca verrà ricordata, quando scriveranno la storia, come quella in cui le banche centrali hanno di fatto scritto l’agenda della politica. Ma sarebbe poca cosa notarlo se a fronte di questa inusitata deriva finanziaria, non si mettesse in evidenza il costo che tali politiche ha accompagnato, che rimane sospeso sulle nostre teste insieme alle sue conseguenze sociali.

Vale la pena perciò leggere un recente intervento di Christian Noyer (“The size of Central Bank balance sheet – how relevant (important) is it?“, che oltre ad essere il governatore della banca centrale francese, è il chairman del board of directors della Bis. Persona quindi bene informata e dotata della vista lunga che deriva dalla pratica delle visioni d’insieme.

La domanda che Noyer si fa non è affatto peregrina. I bilanci delle banche centrali sono cresciuti come mai prima, per supportare i vari allentamenti monetari. Dal 2007 a oggi sono sostanzialmente triplicati, arrivando a fine 2014 all’incredibile cifra di 22 trilioni di dollari. “E’ interessante notare – dice – che tale aumento si è equamente suddiviso fra i paesi avanzati e quelli emergenti”, con la differenza che mentre nei paesi avanzati le bance centrali “hanno comprato asset domestici”, con una edia di espansione del 10-20% del pil, nei paesi emergenti l’espansione di bilancio è seguita all’accumulazione di riserve in divisa.

Ovviamente le media nascondono situazioni fra loro assai eterogenee. Mentre in Canada il bilancio della banca centrale pesa il 5% del Pil, in Svizzera è arrivato all’80% a causa delle politiche monetarie seguite fino al momento dello sganciamento dall’euro. La Bce, per ragioni tecniche legate al funzionamento del sistema Target 2, ha visto incrementare notevolmente il proprio bilancio quando più acuta era la frammentazione finanziaria dell’area, per arrivare a una sostanziosa riduzione che però è solo temporanea, visto che ormai è operativo il QE grazie al quale il bilancio di Francoforte tornerà sostanzialmente al livello del 2012.

Se questi sono i valori in gioco, riveste particolare interesse la domanda se tale espansione abbia una qualche rilevanza. “Generalmente parlando – dice Noyer – sia gli asset che i debiti di una banca centrale hanno importanza”.

Un’espansione dei debiti, infatti, si verifica “quando la banca centrale aumenta la fornitura di liquidità al settore bancario al fine di influenzare i comportamenti dei prestiti”. In sostanza la banca centrale cerca di spingere sulla leva del credito.

Dal lato degli asset, gli acquisti delle banche centrali abbattono il premio del rischio, appiattendo la curva dei rendimenti e, di fatto, provocando un rebalancing dei portafogli, spingendo al contempo la propensione al rischio del settore privato che deve dar la caccia ai rendimenti.

Se sommiamo i due effetti, ne deduco che ne deriva un’accelerazione del ciclo finanziario, con maggior credito a disposizione che viene usato per spuntare maggiori rendimenti nel settore finanziario, visto che al momento la situazione globale degli investimenti rimane stagnante. Il tutto a scapito dei risparmiatori, spinti a rischiare di più per avere di meno, visto che i tassi sono ormai in territorio negativo.

Ovviamente le discussioni sul tema sono numerose e le vedute assai diverse fra loro. Noyer nota ad esempio che “basandosi su come le politiche monetarie sono state condotte nei passati decenni, le banche hanno sempre avuto la capacità di espandere il credito a un livello di tasso di interesse indipendentemente dal livello dei bilanci delle banche centrali. E il fatto che i tassi siano a zero non cambia questa semplice realtà”.

Ciò significa che sostanzialmente le banche centrali possono influenzare poco il livello del credito erogato. Al contrario “dati i canali di trasmissione di un programma di acquisto di asset, la sua composizione e la durata possono importare tanto quanto le sue dimensioni”. Quindi, sembra di capire che più che l’espansione dal lato dei debiti, è quella dal lato degli asset che può avere conseguenze. Quelle che Noyer chiama “segnali”.

In particolare, gli acquisti di asset possono influenzare la forward guidance, ma ancor di più le aspettative di inflazione, che poi sono il pretesto che le banche centrali hanno usato per sfoderare il loro arsenale. Pensate al caso giapponese, o a quello più vicino a noi del QE europeo.

“Questi segnali – nota ancora – sono stati molto efficienti e conseguenti all’annuncio dell’espansione del programma di acquisto asset del 22 gennaio, con movimenti significativi dei mercati finanziari accompagnanti da un declino dei tassi di interessi lungo tutta la curva dei rendimenti e una crescita dei valori azionari”.

Insomma: quando la banca centrale diventa un attore del mercato, il mercato risponde.

Ma è davvero un pasto gratis, come sembra, o ci sono conseguenze negative che bisogna temere?

Noyer analizza tre punti dolenti. Il timore di molti analisti che tali acquisti di asset finiscano con lo scatenare l’inflazione, che però finora è assolutamente controfattuale, visto che è accaduto il contrario, almeno nell’eurozona.

Il secondo punto, riguarda le implicazioni quasi-fiscali che l’azione delle banche centrali porta con sé. “C’è la percezione che espandere i bilanci delle banche centrali crei un ambiente dove le relazioni fra banche centrali e governi diventino più complicate”. In sostanza, tale aumento espone le banche centrali e nuovi rischi, le rende più vulnerabili e quindi compromette la loro indipendenza.

Il terzo punto riguarda la solvibilità delle banche centrali. “Quasi tutti gli analisti concordano sul fatto che una banca centrale non possa tecnicamente andare in bancarotta, visto che può emettere valuta e riserve quanto le occorre per soddisfare i propri pagamenti: Infatti in passato alcune banche centrale con una grande reputazione hanno operato con un equity negativo per molto tempo”. Molti economisti, tuttavia, osservano che tale situazione può compromettere la capacità di agire della banca centrale.

Non è quindi il fallimento tecnico, la preoccupazione di Noyer, ma quello sostanziale. Una banca che perdesse il controllo della base monetaria a causa dei suoi debiti deve chiedere al governo di ricostituire il proprio capitale per poter agire. In sostanza, il debito della banca centrale diventa un enorme debito fuori bilancio del governo, che in sostanza è l’azionista occulto di tali entità, esasperando quindi il rischio che ho discusso al punto precedente.

Dopo aver premesso che la Bce è ben tutelata da tali rischi, potendo godere di un solido capitale finanziario e reputazionale, Noyer riconosce che un bilancio troppo grande può influenzare l’allocazione delle risorse e provocare trasferimenti fiscali impliciti, fra gli stati, nel caso dell’eurozona, ma anche all’interno degli stati, aggiungo io.

Rimane la domanda su cosa debba farsi per limitare gli effetti di tali politiche che, avverte Noyer “devono essere minimizzati ma non possono essere evitati”.

“Per esempio – dice – tali politiche possono avere conseguenze distributive non intenzionali, facendo crescere il prezzo degli asset e quindi beneficiando le famiglie più ricche“. D’altro canto, spingere sul pedale della crescita tramite QE fa aumentare i posti di lavoro “a vantaggio delle famiglie più fragili”. In altri casi “può crescere il moral hazard”.

Detto ciò, e ricordando che le banche centrali “dovrebbero adottare politiche quanto più possibili neutrali”, come se davvero fosse possibile, il fatto che possano essere conseguenze non intenzionali non deve impedire alle banche centrali di fare quanto reputano necessario, conclude Noyer, ricordando altresì che “le politiche non convenzionali sono necessarie ma complesse”.

Quanto agli effetti, “possono essere distribuiti in maniera tanto più efficiente quanto più il contesto rimane efficiente”. Che è come dire che le conseguenze di tale agire non sono un problema delle banche centrali.

Sono un problema nostro.

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