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La lotteria delle pensioni: i semi velenosi degli anni ’50

Scorro statistiche ammuffite, che raccontano di un’Italia che mi risulta aliena, per quanto è remota, eppure terribilmente concreta per gli effetti che le decisioni a suo tempo prese hanno sulla mia vita e su quella di tutti noi.

E poiché debbo discorrere di pensioni, m’infliggo una defatigante lettura delle statistiche sulla popolazione, concentrando l’attenzione nel periodo successivo al secondo dopoguerra, quando il dibattito sulla previdenza iniziò a infuriare.

Gli studiosi raccontano dell’infinità di proposte di legge depositate in Parlamento per riformare la previdenza, e ciò malgrado gli anziani fossero ben pochi.

Anche qui, scopro un’Italia che abbiamo ormai dimenticato, dove i residenti fino a 5 anni, nel 1951, erano più del 9% del totale della popolazione, a fronte del 6% di sessant’anni dopo, mentre gli ultra65enni erano poco più dell’8% della popolazione, che all’epoca quotava 47 milioni e 515mila, a fronte del 21% dei 59 milioni e 434mila residenti del 2011.

Faccio un salto di dieci anni, durante i quali si piantano le robuste radici della nostra imprevidente previdenza, e scopro che i numeri sono cambiati di poco, ma si è già verificata un’inversione di trend. I residenti fino a cinque anni sono scesi all’8,2% circa dei 50 milioni e 623 mila residenti, mentre gli ultrasessantacinquenni sono arrivati al 9,5%.

Nel 1971, a disastro pensionistico ormai consumato, il trend di quello che diventerà l’Italia, comune peraltro agli altri paesi avanzati, è già ben delineato. Sui 54 milioni 137 milioni di residenti, quelli con meno di cinque anni sono l’8,1%, a fronte dell’oltre 11% degli ultra65enni. Quindi non è che già all’epoca non si potesse immaginare dove ci avrebbe condotto la demografia. Solo che nessuno se ne è preoccupato.

Se ne sono infischiati.

Un altro indicatore demografico, rivela con chiarezza che l’andamento dell’invecchiamento della popolazione era scritto nei numeri, mentre il nostro Parlamento legiferava per aumentare in maniera dissennata la spesa previdenziale. Mi riferisco all’indice di vecchiaia, ossia al rapporto percentuale fra la popolazione di 65 anni e quella di 0-14 anni, quindi riferito a un universo giovanile più ampio di quello che abbiamo visto finora.

Nel 1951 tale indice misurava 31,4, che significa che c’erano 31,4 anziani ogni cento 0-14enni. Nel ’61 erano già 38,9. E dieci anni dopo a 46,1. Il trend, insomma, era chiarissimo.

Certo nessuno poteva presagire che si arrivasse ai 144 anziani su 100 giovani del 2009, ma una sana prudenza attuariale avrebbe dovuto suggerire prudenza politica, che invece è venuta a mancare già dall’inizio degli anni ’50, quando il dibattito sulle pensioni, malgrado il numero relativamente contenuto degli anziani, infuriava come oggi.

Ed è proprio nei meravigliosi anni ’50, anni di grandi speranze, che si piantano i semi velenosi dai quali germoglierà il nostro dissesto pensionistico, che in fondo altro non è che l’altra faccia del nostro dissesto sociale.

Non serve essere sociologi per capire i guasti che può provocare a una società la tentazione di vincere una pensione alla lotteria. E mi chiedo, mentre scorro le vecchie cronache di quegli anni, che popolo siamo, visto che abbiamo dimostrato con la nostra storia di privilegiare la spesa pensionistica, e per giunta anticipando sempre più l’età del pensionamento, rispetto a qualunque altra forme di welfare, familiare o lavorativo.

Preferisco non rispondermi.

Meglio osservare che già all’inizio dei ’50 si mettono le basi del nostro presente.

La prima legge, la numero 633 del 28 luglio 1950, estende a tutti i dipendenti la tutela della vecchiaia. Quindi la legge 218 del 1952, che conferma il passaggio dal vecchio sistema a capitalizzazione a quello a ripartizione, fissando pure il requisito di 15 anni di contribuzione per avere diritto alla prestazione di vecchiaia, con tanto di deroga che prevede che tale diritto, fra il 1952 e il 1962, sia estensibile anche ai lavoratori con meno di 15 anni.

La fase autenticamente espansiva, tuttavia, inizierà pochi anni dopo. La lotta per la conquista dei consensi fra Dc e Pci, verrà combattuta innanzitutto sul terreno delle pensioni. Cosa c’è di meglio che garantire una provvidenza per conquistare consenso? Sempre meglio che lavorare, direbbero i giornalisti.

Come simpatico aneddoto valga quello che ci racconta della legge 55 del 1958, quando già molti danni erano stati fatti.

Poiché si doveva votare, nel febbraio di quell’anno, il 30 ottobre del 1957 il ministro del Lavoro Gui presenta un disegno di legge che si propone di facilitare l’accesso alle pensioni di reversibilità e di aumentare i trattamenti pensionistici di un robusto 22%. La legge viene approvata il 20 febbraio, con importi addirittura superiori a quelli previsti dal governo: a conti fatti le prestazioni aumenteranno del 35-50%.

Sarebbe troppo lungo e anche noioso far qui l’elenco degli importanti provvedimenti presi negli anni ’50 sul fronte pensionistico, frutto di una furiosa quanto incomprensibile (o al contrario chiarissima) fissazione per le pensioni, che come vedete non ci è mai passata.

Ricordo solo la riforma che estese agli agricoli la tutela previdenziale e quindi agli artigiani, prodromiche alla generale estensioni della tutela agli autonomi. O quella che previde di aumentare il bacino delle cosiddette pensioni quasi-gratis, ossia concesse agli agricoli anche a fronte di un solo anno di contributi. Gestioni strutturalmente deficitarie, quindi, destinate a dispiegare i suoi effetti sulle generazioni a venire.

Preferisco raccontarvi nel dettaglio la storia di un istituto che solo la nostra sperimentata fantasia poteva immaginare: le baby pensioni, cui si affiancarono le pensioni di anzianità.

E infatti è proprio negli anni ’50, contrariamente a quanto pensano molti, che nascono le baby pensioni per i dipendenti pubblici, non a caso definite “la più vistosa anomalia del sistema pensionistico italiano” nel libro di Ferrera, che come un novello Virgilio mi guida negli inferi previdenziali italiani.

Mi chiedo quanto sia giusto che uno stato regali una pensione ai suoi dipendenti pubblici dopo vent’anni di lavoro, ridotti a 15 per le donne coniugate con figli, incoraggiando così la peggiore considerazione del lavoro, ossia come stato di disgrazia dal quale evadere prima possibile, per tacere delle infinite distorsioni che ciò provoca nel mercato del lavoro e sui conti pubblici.

Anche qui preferisco non rispondermi. Rispondono i fatti per me.

Il governo, Guidato da Pella, presentò il 20 ottobre 1953 un disegno di legge per istituire la tredicesima mensilità per gli ex dipendenti pubblici titolari di pensioni ordinarie. Un mese dopo le commissioni avevano già liquidato il provvedimento, che sei giorni dopo venne approvato dall’aula, divenendo la legge 876 del 1953.

Non pago, pochi giorni dopo il governo presentò un disegno di legge delega che si proponeva di emanare nuove norme relative al nuovo statuto degli impiegati civili e degli altri dipendenti dello Stato. Nel testo, però, non c’era alcun riferimento alle pensioni.

La solita manina inserirà il tema durante il passaggio al Senato.

I lavori parlamentari si protraggono, anche a causa del cambio di governo, che adesso vede Scelba alla presidenza del consiglio. Si arriva così al 1955, quando su pressione della Cisl e dopo la fine del governo Scelba, sostituito dal primo governo Segni, il governo trova la quadratura del cerchio che conduce, nel gennaio 1956, all’emissione di alcuni decreti del presidente della Repubblica che attuano la legge delega.

In particolare, il Dpr 20/1956 previde il diritto dei dipendenti pubblici a ricevere una pensione dopo 25 anni di servizio, ridotti a 20 nel caso di donne coniugate o con prole. Ed eccole qui le nostre pensioni baby, che più tardi, nel 1973, verranno ulteriormente “infantilizzate” portando gli anni minimi di contribuzione a 20 per gli uomini e 15 per le donne.

Sempre con Dpr, il numero 17, furono introdotte le pensioni di anzianità per i dipendenti pubblici (pensioni di vecchiaia all’età di 65 anni, con 20 anni di contributi, o a una pensioni di anzianità dopo 40 anni di servizio) e il sistema retributivo per il calcolo dell’assegno.

Tale decisione si rivelò gravosissima, sia perché per i dipendenti pubblici vigeva il sistema retributivo, sia perché non era previsto un meccanismo attuariale che aggiustasse le prestazioni sulla base dell’età anagrafica.

In pratica, al di là del dato contabile, si creò una coorte potenziale di 40-45enni sfaccendati e pensionati, buoni per lavorare in nero come sicuramente molti avranno fatto. E questa situazione è andata avanti fino al 1992, quando le baby pensioni furono cancellate.

Non riesco nemmeno a immaginare quanto sia costata, economicamente e socialmente, questa trovata. Osservo però che la spesa per pensioni, nel 1955, era poco meno del 25% del totale della spesa sociale, e che cinque anni dopo arriverà a sfiorare il 30% ( da 270 miliardi circa a 560) e da lì via via crescere fino al quasi 35% del 1970 e all’oltre il 40% del 1980.

E ciò spiega bene perché, considerando i dati relativi agli anni 200-2008, la spesa sociale per vecchiaia e superstiti sia stata del 59,1% della spesa sociale a fronte di una media dell’Ue a 15 di 43,7%, mentre la spesa sociale per le famiglie e i minori siano appena al 4,2% del totale contro una media Ue del 7,8, per non parlare di quella per la disoccupazione, appena all’1,8% a fronte di una media Ue del 5,7.

Il succo è chiaro: abbiamo dato precedenza alle pensioni, rispetto a tutto il resto. E per quanto mi seduca l’idea di avere un rendita – o un salario differito, fate voi – per fare nulla, tutto ciò mi risulta indigesto. Ma forse solo perché devo pagare il conto per qualcun altro.

Concludo riportando quanto scrive Ferrera sulle baby pensioni, ossia che “la più vistosa criticità, sia sul piano finanziario che intra e inter-generazionale sia stata introdotta per decreto in assenza di una approfondita discussione parlamentare”.

Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, diceva il filosofo.

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