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La lotteria delle pensioni: il boom infinito dei ’60

Leggo curioso una lunga intervista che il nuovo presidente dell’Inps ha rilasciato a Repubblica pochi giorni fa e vi scorgo una dichiarazione che non smette di sorprendermi.

Alla richiesta se l’Istituto stia pensando di ricalcolare le pensioni col metodo contributivo, per reperire le risorse per l’annunciata proposta di un intervento di reddito minimo per gli over 55enni rimasti a spasso e senza pensione, il presidente Inps risponde così: “Pensiamo che si debbano evitare il più possibile interventi sulle pensioni in essere. Se dovessero esserci esigenze finanziarie potremmo anche prendere in considerazione, ma solo per le pensioni alte, molto alte”.

A fronte di cotanta certezza, che non muove di un centimetro la posizione espressa dai vari governi finora succedutisi, osservo un grafico in cima alla pagina che ospita l’intervista dove leggo che la spesa totale per le pensioni italiane sul totale della spesa pubblica, dato 2011, ormai è ben oltre il 30%, dieci punti in più rispetto alla Germania e peggio persino della Grecia. E mi chiedo, senza trovare una risposta, come si possa pensare di lasciare tutto com’è e in nome di cosa.

Quale è la ragione per la quale in Italia ciò che è stato è stato?

Nella prudenza di tecnici e governanti, scorgo il feticcio dei diritti acquisiti, che valgono per molti, ma non per tutti, visto che i vari governi non si preoccupano di violarli quando gli fa comodo. E capisco pure le prudenze elettorali che derivano dall’essere i pensionati ormai oltre il 21% della popolazione, ossia una sostanziale maggioranza relativa dei votanti, atteso che i minori (dato 2014) sono poco più di dieci milioni. La demografia pesa in politica almeno quanto in economia, faremmo bene a ricordarcelo.

Sicché nella prudenza del presidente dell’Inps leggo il destino che attende tutti noi, che pensionati non siamo e che magari non lo saremo mai, o di sicuro non alle condizioni di cui hanno goduto quelli prima di noi.

E soprattutto nei dati della nostra spesa pensionistica, che in sessant’anni si è moltiplicata per quasi duemila a valore nominale, scorgo l’unico boom che ha dignità di esser chiamato tale nel nostro paese: quello delle pensioni che, iniziato negli anni ’50, conosce nei ’60 la sua incredibile parabola espansiva che ben altro esito produrrà sulla nostra storia, rispetto al misero boom del prodotto interno lordo registrato nel periodo 1959-1963. Quello è finito in malora. Quello delle pensioni, dura da allora e nessuno minaccia di fermarlo. Al massimo si prova a rallentarlo.

Un dato di sintesi permetterà di apprezzare perché non è esagerato parlare di boom e collocarlo negli anni ’60.

Un bel grafico, che ho trovato nel libro di Maurizio Ferrera e altri, che ha accompagnato questa nostra ricognizione nel welfare all’italiana illustra l’andamento della spesa totale per pensioni fra il 1951, quando era di poche centinaia di miliardi (a prezzi costanti del 1970), al 1977, quando ormai aveva superato i 5.000 miliardi (sempre a prezzi costanti del 1970).

In pratica in un quarto di secolo la spesa a prezzi costanti si è moltiplicata per un fattore di almeno 25, assai più di quanto avrebbe giustificato l’aumento del costo della vita o della demografia. Si è trattato di precise scelte politiche, ossia di tutti noi (sarebbe miope accusare solo quelli che fanno le leggi ignorando il contesto socio-istituzionale). O meglio della generazione che guidava il paese nel tardo secondo dopoguerra.

Se guardiamo le responsabilità politiche, infatti, notiamo che le riforme più costose sono state approvate con ampi consensi parlamentari e più tardi sindacali, opposizione compresa, a dimostrazione che il consenso su questa modalità di uso della spesa pubblica è stato pressoché universale. La pensione, insieme con la casa, appartiene alla mitologia dell’essere italiani, a quanto pare.

La lunga parabola espansiva, come la chiama Ferrera, inizi proprio a metà degli anni ’50 e dura almeno un ventennio, trovando nei ’60 l’apice della dissennatezza che i ’70 si incaricheranno solo di consolidare.

Fra il 1955 e il 1975, infatti, le pensioni aumentano di numero al ritmo di oltre 1,5 milioni ogni cinque anni, arrivando a crescere di ben 2 milioni 737 mila unità nel 1970 e di 2 milioni 350 mila nel 1975.

Vi faccio notare che nel 1975 era in vigore già da 19 anni la normativa sulle pensioni baby, che pochi anni prima era stata approvata abbassando a 2o anni, 15 per le donne, l’età contributiva per i dipendenti pubblici per andare in pensione. In pratica, una donna nata nel 1940, che fosse dipendente pubblica nel 1960, quando ancora lo Stato assumeva a spron battuto, nel 1975 poteva già essere in pensione, e ancora oggi continuare a godersela. Si capisce bene perché aumentarono così tanto i pensionati.

Però, dice il presidente dell’Inps, le pensioni in essere non si toccano.

Chi ha avuto ha avuto.

Osservo deliziato che l’ultimo picco di pensioni concesse, pari a 1 milione 229 mila, al livello del 1955, quando fu approvata la riforma degli agrari, si è toccato nel 1995, quando il governo tentò la sua timida riforma contributiva. L’ennesima beffa.

Se guardiamo agli importi, espressi in euro del 2010, notiamo come quello medio del 1955, pari a 1.268 euro 2010, praticamente sia raddoppiato nel 1965, collocandosi a 2.475, per arrivare a 4.125 nel 1975, e a 6.552 nel 1985. In pratica, in trent’anni l’importo medio è aumentato di oltre cinque volte, mentre nei venti anni successivi appena del 51%.

Il dissesto della nostra previdenza, perciò, si consuma nel trentennio fra il 1955 e il 1985, e gli anni ’60 stanno com’è logico che sia, in mezzo.

Per evitare di annoiarvi con i dettagli, ricordo solo che la prima metà degli anni ’60 fu sostanzialmente preparatoria. A parte alcuni aumenti dei minimi concessi ad alcune categorie, che comunque fecero salire parecchio la spesa complessiva, non si segnalano eventi rilevanti. Ricordo pure che già dal 1963 si provò a indicizzare le pensioni . E che risale alla legge 3 agosto 1962 l’abbassamento dell’età pensionabile delle donne a 60 anni, che durerà fino a tempi recenti.

Per apprezzare quanto siano costati questi mini-interventi, basta osservare che fra il 1958 e il 1963, la spesa pensionistica passò da 418 a 870 miliardi, con un’accelerazione nel 1962, quando si passò dai 528 miliardi del 1961 a 768. Il boom dell’economia coincise con quello delle pensioni, insomma, alle quale furono concessi incrementi come mai prima nella storia. Solo che quello dell’economia poi si fermò. Quello delle pensioni no.

In compenso il lavoro propositivo è frenetico. Nella III legislatura, quindi fra il 1958 e il 1963, vengono presentate 211 proposte di legge sulla protezione sociale, 97 delle quali riguardano le pensioni e solo 6 la disoccupazione, che a mio modesto avviso spiega meglio di ogni altro argomento cosa sia il nostro paese.

Ma il punto di svolta avviene nel 1965, quando fu varata la legge 903, ennesima grande riforma incrementale del sistema, che fra l’altro istituì le pensioni di anzianità per i dipendenti privati, con 35 anni di anzianità, che seguì a quella del 1956 che l’aveva istituita per i dipendenti pubblici insieme con l’introduzione del sistema retributivo, sistema di calcolo che durerà fino alla riforma Dini del ’95.

Le pensioni del settore privato però, a differenza del pubblico, venivano ancora calcolate a contributivo (come adesso).

Ma non accadde solo questo. La legge del ’65 mise la base della pensione sociale, all’epoca individuata come il trattamento pensionistico minimo per tutti i lavoratori. Quindi non equivale a quella che conosciamo oggi, ma è un po’ la sua progenitrice.

L’anno successivo fu estesa la tutela ai commercianti, ma soprattutto si preparò il clima per l’ultimo grande intervento incrementale, che si verificherà nel bel mezzo delle contestazioni operaie e studentesche, in un clima intriso della retorica dei diritti e del tutto gratis a tutti, preparatorio della grande abbuffata degli anni ’70.

La riforma del 1965 prevedeva l’esercizio di una delega che però non venne esercitata nel tempo di due anni previsto.

Il governo, dopo un’ampia negoziazione con i sindacati decise di rivedere il contenuto della delega e così arriva al Dpr 488 del 1968 che previde l’ennesimo aumento di spesa pensionistica. Oltre all’aumento dei minimi, si decise anche l’introduzione del sistema retributivo nel settore privato, anche se ancora in forma diluita.

Il governo provò anche a fare un passo indietro sulle pensioni di anzianitià, che oltre ad essere l’ennesimo unicum italiano, avevano provocato 170 miliardi di spesa aggiuntiva solo nel primo triennio di approvazione, e riuscì persino a cancellarle, fra gli strepiti dell’opposizione.

La Cgil reagì duramente aprendo una vertenza pensione. Il clima dell’epoca favorì la mobilitazione e il governo cedette su tutta la linea.

Il governo, guidato da Mariano Rumor realizzò quel “grande accordo spartitorio con il quale si conclude la fase di più robusta espansione del sistema pensionistico italiano”, chiosa Ferrera.

Con la legge 153 del 1969 le molte richieste dei sindacati vengono accolte, fra le quali l’indicizzazione delle pensioni in corso al costo della vita e il rafforzamento del ruolo dei sindacati dentro l’Inps. Fra l’altro viene adottata la pensione sociale, come la conosciamo adesso, e vengono reintrodotte le pensioni di anzianità che solo con la riforma Fornero del 2012 sono state abolite.

L’impostazione di base, generosa, deficitaria e inguale, non muta negli anni successivi.

Nel 1975 le pensioni superiori al minimo vengono indicizzate alla crescita delle retribuzioni nel settore industriali. Nel 1976 vennero concessi ai dipendenti pubblici sistemi di calcolo per il retributivo più generosi. E ancora nel 1990 si arrivò a istituire il calcolo retributivo per le pensioni del lavoro autonomo assicurate presso l’Inps. Come se il bengodi non dovesse finire mai.

E infatti non finì, neanche nel 1992. Per qualcuno dura ancora.

Ma non ditelo al presidente Inps.

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