La discussione sul DEF ha finalmente riacceso i riflettori sulle politiche sociali. Sono più di 6 milioni, nel nostro Paese, le persone in stato di povertà assoluta, rispetto alle quali non esiste alcuno strumento di sostegno. E sono, purtroppo, molti i giovani ai quali – pur non rientrando in tali statistiche – è preclusa la possibilità di inserimento nel mondo del lavoro, di formare una famiglia e di mettere al mondo dei figli.
Complice la crisi dei debiti sovrani e le politiche di austerità, negli ultimi anni le politiche per la coesione sociale hanno dovuto cedere il passo ad interventi di ridimensionamento della spesa pubblica che, pur nella loro doverosità, hanno inciso sulle condizioni di vita di molte famiglie. A ciò si è aggiunto l’inesorabile venire al pettine dei nodi di un sistema produttivo non più competitivo, di dinamiche di mercato distorte e spesso perverse e di una pressione fiscale sempre più soffocante che ha prodotto la perdita di molti posti di lavoro ed una sempre più preoccupante disoccupazione giovanile.
Sono i segnali preoccupanti di una società che fa troppo poco, e a volte nulla, a tutela della dignità della persona. Su questi temi, alcuni spunti di riflessione interessanti per valutare la reale efficacia delle nostre politiche di welfare e, più in generale, per cogliere quanto la nostra cornice istituzionale rispetti realmente la dignità della persona possono giungere dal magistero sociale della Chiesa.
Sul fronte della lotta alla poverta’ esso ci invita ad un impegno costante ad elevare i più deboli perseguendo un’idea di sviluppo che, attraverso l’inclusione, guarda non solo alla crescita economica ma allo sviluppo umano integrale, di cui essa è solo un aspetto. In quest’ottica, sarebbe perciò auspicabile che il tesoretto di cui tanto si parla – al netto di qualsiasi polemica sulla sua effettiva esistenza – fosse destinato a finanziare interventi tesi a liberare i più deboli dal bisogno piuttosto che ridursi ad una (pur utile, ma insufficiente) ennesima politica assistenziale. Ciò, a maggior ragione in virtù del fatto che si tratta in realtà non di un risparmio di spesa ma di una vera e propria nuova spesa in deficit.
Semplicistici approcci paternalistici deresponsabilizzano la società civile rispetto alle sorti dei più deboli e finanche gli stessi beneficiari, risultando strutturalmente inefficaci ed incapaci di elevare i poveri dalla loro condizione di bisogno, rendendoli essi stessi parte integrante delle dinamiche di sviluppo. Tale approccio, teso a promuovere l’inclusione sociale ed a spezzare le catene della povertà, da un lato è rispettoso della dignità umana e, dall’altro, permette di superare l’obiezione secondo cui gli interventi di redistribuzione in favore delle fasce più deboli hanno ricadute non significative sul fronte della crescita economica.
È questa la grande sfida inclusiva di un sistema di welfare che, in un contesto di contrazione delle risorse pubbliche, richiede l’abbondono di logiche assistenziali ed un deciso investimento sul fronte della sussidiarietà orizzontale, del sostegno all’accesso al credito dei progetti sociali, dell’istruzione, del sostegno alla mobilità sociale, della promozione dell’imprenditorialità e dell’accesso al lavoro.
Gli strumenti di finanza sociale e lo sviluppo nel mondo anglosassone dei Social Impact Bonds offrono alcuni spunti interessanti per il ripensamento di alcuni tradizionali strumenti di welfare. Se si destinassero, ad esempio, le risorse pubbliche alla creazione di un fondo di garanzia teso a permettere l’accesso al credito di specifici progetti sociali, concordati con il settore pubblico e coordinati dal terzo settore in alleanza con il settore for profit,prevedendo forme di defiscalizzazione e settori a burocrazia zero, si potrebbero ottenere molti più risultati in termini di crescita, coesione sociale e promozione del capitale umano rispetto a qualsiasi politica assistenziale. Inoltre, la contrazione della spesa sociale potrebbe spingere alla creazione di sistemi di “quasi mercato” tesi a promuovere un’innovazione di prodotto e di processo che favorisca l’accesso di fasce sempre più ampie di popolazione ai servizi sociali e all’introduzione di meccanismi competitivi che favoriscano una maggiore responsabilizzazione degli erogatori sul fronte dell’uso delle risorse, della qualità dei servizi di welfare e dei risultati ottenuti.
La ricerca del bene comune passa, dunque, per la lotta alla povertà. Lungo questa via, essa, da emergenza etica e morale, può diventare la leva di un progetto di crescita economica e sociale del Paese a misura d’uomo.
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Una versione ridotta del presente articolo è apparsa su SIR – Agenzia di Informazione Religiosa in data 21/04/2015 http://www.agensir.it/sir/documenti/2015/04/00310709_la_lotta_alla_poverta_oltre_l_assistenzia.html