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Perché sono ottimista sul Jobs act di Renzi. Parla il prof. Stefano Liebman

A distanza di qualche mese intervisto nuovamente  Stefano Liebman, professore ordinario di diritto del lavoro all’Università Bocconi e direttore della scuola di Giurisprudenza. Il Jobs act è in vigore e ora si iniziano a cercare elementi pro o contro di esso. Cosa c’è di positivo in questa riforma? La strada è quella giusta? 

Prof. Liebman rispetto all’indefinitezza iniziale di cui ci parlava in una precedente intervista, pensa che questa proposta di riforma sia oggi più chiara e proponga elementi interessanti per riattivare il mercato del lavoro italiano?

Oggi, con due decreti già in vigore, due approvati dal Consiglio dei ministri e da inviare alle Camere per il loro necessario parere consultivo, il quadro è sicuramente più chiaro anche se ancora lontano dall’essere pienamente operativo. Le maggiori incognite riguardano la copertura finanziaria necessaria per dare contenuti concreti al disegno riformatore delineato nella legge delega.

Renzi aveva detto che c’erano state 96000 assunzioni grazie al Jobs act, ma ISTAT sembra aver smentito queste cifre. Ed è aumentata la disoccupazione. Il Jobs act non funziona? Renzi forse è stato imprudente a dare numeri?

Il decreto sul contratto a tutele crescenti è entrato in vigore il 7 marzo e per misurarne gli effetti ci vuole tempo. Le assunzioni annunciate dal governo erano precedenti ed, in misura significativa, incentivate dagli sgravi contributivi previsti dalla legge di stabilità, oltre che dai segnali di una lenta ripresa con conseguente aumento della fiducia.

I dati ISTAT riguardano dicembre 2014 e l’inizio dell’anno in corso: da un lato sono gli effetti della crisi da cui stiamo, forse e solo adesso, iniziando a vedere una possibile fine; dall’altro, l’aumento degli iscritti, soprattutto donne, nelle liste di disoccupazione può anche essere letto come un segnale positivo: si ricomincia a cercare lavoro. E diminuiscono infatti quegli inoccupati che non lo hanno e neppure lo cercano.

Il contratto a tutele crescenti supererà l’elemento critico che aveva individuato nella nostra prima intervista, ossia il dualismo tra lavoratori standard e quelli atipici senza tutele?

Dovrebbe contribuire, unitamente alla maggiore onerosità dei contratti a tempo determinato e ad una razionalizzazione dei contratti atipici, a fare del contratto a tutele crescenti la forma normale, e prevalente, di acquisizione del lavoro subordinato.

Un’ultima domanda: vede elementi di speranza concreti per il futuro? Ci saranno più occupati e le imprese inizieranno a tornare produttive?

Sì, se la congiuntura internazionale non subisce brusche impennate, seppure lentamente, siamo sulla strada giusta per sciogliere alcuni di quei limiti endemici del nostro sistema economico-produttivo che ci vedeva in affanno già prima della grande crisi finanziaria degli ultimi anni. A condizione, naturalmente, di proseguire in questa direzione, portando a compimento il più velocemente possibile la riforma della Pubblica Amministrazione e quella, non meno significativa, del sistema politico-istituzionale.

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