Il prossimo viaggio negli Stati Uniti del presidente del Consiglio Matteo Renzi, se affrontato col piglio giusto, potrà avere una valenza significativa per lasciare in eredità politica un Atlantico ancora più stretto. La precondizione è che la verve comunicativa del premier – selfie e tweet inclusi – lasci questa volta spazio ai tanti dossier comuni, spesso anche “caldi”, in discussione in queste ore: le tensioni che solcano Europa e Usa di certo non mancano e l’incontro di venerdì 17 aprile con il presidente Barack Obama può essere un’occasione per parlarne in modo non superficiale.
LA CRISI UCRAINA E LA VISIONE ATLANTICA
La prima questione sul tavolo è la crisi ucraina. Le sanzioni contro la Russia – alle quali potrebbero sommarsene altre auspicate dagli Stati Uniti, come adombrato anche dal generale Wesley Clark – hanno avuto ripercussioni negative sia per gli Usa sia per i Paesi europei. Per questo, nel Vecchio Continente crescono gli interrogativi sull’inasprimento dei rapporti col Cremlino. Un atteggiamento più accomodante si scorge da tempo in Germania, con Berlino che guarda più a Mosca e Pechino che a Washington, nelle prospettive geopolitiche di medio termine. L’Italia deve decidere cosa fare. La Penisola può essere, come spessissimo accade, una spettatrice di decisioni altrui e accodarsi; oppure cercare di ritagliarsi un ruolo di cerniera con gli Stati Uniti, anche in virtù di una fedeltà atlantica ben nota a Washington e a Obama, che aveva con l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rapporti eccellenti. Gli equilibri geopolitici seguiti al crollo dell’Urss sono stati, e per certi versi sono ancora, instabili. Eppure la relazione fra Stati Uniti e Italia continua ad essere “speciale” e questo può voler dire tanto, sia dal punto di vista degli investimenti finanziari e industriali, sia dal punto di vista strategico, considerata la posizione del Paese in Europa e nel Mediterraneo.
IL BURDEN SHARING E LO SGUARDO AL MEDITERRANEO
Quest’argomento si collega ad un altro, rilevantissimo, che non sarà eluso nella permanenza americana di Renzi: quello riguardante le spese militari dell’Italia, membro di primo piano della Nato. L’Alleanza Atlantica non può più essere quella che è stata in passato, anche in quello recente. Il punto non è – o almeno non solo – se e come reagire per difendere Kiev dall’escalation militare dei ribelli filorussi foraggiati da Vladimir Putin. Il tema è semmai come articolare una capacità strutturalmente pronta a fare fronte alle minacce emergenti. Quando Obama venne a Roma chiese di spendere di più in difesa (almeno il 2% del Pil, contro l’1,6% speso dall’Italia). Non fu molto ascoltato. Questo impegno, però, fu poi accettato dai nostri governanti nel summit Nato in Galles. Il nodo, anche in questo caso, non sono gli F-35, ma la percentuale di serietà, fiducia e responsabilità (Muos compreso) che l’Italia vuole mostrare di avere ai propri partner, tanto in Europa quanto oltreoceano. Per il premier italiano è un’occasione unica per dimostrare il nostro impegno e auspicare così che l’occhio dell’Alleanza si orienti maggiormente verso l’orizzonte geostrategico più prossimo dell’Italia, ovvero il quadrante che dal Mediterraneo arriva al Golfo passando per il Medio Oriente. La volontà americana c’è tutta: non è un caso che la Casa Bianca desideri da tempo che l’Italia chiarisca agli altri (e a sé) come risolvere il caos libico andando oltre l’azione di mediazione dell’inviato Onu, Bernardino León, magari attraverso l’assunzione di maggiori responsabilità.
IL RUOLO DEL TTIP TRA ITALIA, UE E USA
Tra i dossier dirimenti c’è anche il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, il Ttip che potrebbe avere un peso importante per il rilancio dell’economia e per un aumento delle esportazioni italiane, come si evince indirettamente anche da uno studio della Commissione di Bruxelles. L’Europa è divisa sul tema e gli Usa – o meglio, Obama – complice l’avvio della corsa per le presidenziali, non appaiono troppo intenzionati a chiudere il negoziato, mentre il presidente americano segue con maggiore attenzione la definizione della Trans-Pacific Partnership, un accordo per il libero commercio tra 12 nazioni che coprono il 40% del Pil globale e che esclude la Cina. Il premier italiano, anche sulla scorta del lavoro svolto dal viceministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, potrebbe farsi portavoce e garante di un maggiore dibattito europeo a sostegno del partenariato, giocando il jolly del Ttip per far rilanciare in maniera costruttiva le relazioni tra Usa e Ue solcate da tensioni e diffidenze.
LE MIRE DEL DRAGONE CINESE
Ciò avrebbe anche il risultato di ancorare l’Italia a una visione non troppo euroasiatica, in un momento in cui da più parti Roma è considerata parte integrante del progetto di Pechino di una nuova Via della Seta, un corridoio infrastrutturale per favorire i commerci tra Cina ed Europa da realizzare anche attraverso la recente creazione dell’Aiib, la Banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali che annovera tra i suoi soci fondatori anche l’Italia (non senza qualche irritazione a Washington). Anche a seguito di queste intese e dei tanti investimenti fatti nelle boccheggianti economie dell’Eurozona (l’Italia non fa eccezione), Pechino potrebbe nel 2016 avere il via libera per l’agognato riconoscimento dello status di economia di mercato, che da un lato gli offrirebbe un sostegno allo sviluppo e la prospettiva di aumentare le proprie aperture commerciali verso il Vecchio Continente; dall’altro, come Paese emergente, gli darebbe l’ulteriore prestigio necessario per essere accomunato con pari dignità alle grandi potenze economiche.
Alla Casa Bianca, così come a Foggy Bottom – c’è da scommetterci – non stapperebbero bottiglie di champagne. E nemmeno di prosecco.