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Riparte la lotteria delle pensioni

Sono cresciuto, come molti, sentendo parlare di pensioni. Quando ero piccolo era il miraggio di mio padre, che agognava, come tanti della sua generazione, di terminare la vita lavorativa prima possibile, potendo contare su una previdenza alquanto generosa che l’avrebbe accompagnato serenamente lungo la terza età.

Poi, diventato grande, ho capito che il sogno di mio padre non poteva essere il mio, per la semplice circostanza che nel frattempo erano intervenute le varie riforme, a cominciare da quella del ’95-’96, che avevano fatto coincidere la mia vita lavorativa con l’ingresso nel contributivo e quindi in un regime previdenziale che prevede rendite assai meno generose rispetto al passato, a fronte di una vita contributiva assai più lunga.

Sicché ormai mi sono rassegnato a lavorare fino a 70 anni, pregando tutti i giorni di avere la forza e un lavoro fino ad allora, contemplando insieme atterrito e sconcertato il continuo discorrere di previdenza da parte dei nostri governanti, come se ancora ci fosse da togliere a quelli come me, per non parlare dei più giovani, e non invece a quelli che prima di me, e in ben altri regimi previdenziali, hanno maturato i loro cosiddetti diritti acquisiti i cui esiti ancora oggi siamo chiamati a sostenere con i nostri contributi.

Qualche giorno fa ho letto che il neo presidente dell’Inps ha annunciato entro giugno una proposta di riforma delle pensioni orientata a una maggiore equità, con lo scopo di recuperare risorse da destinare alla corte dei 50-60enni che rimangono senza lavoro e devono essere supportati. Giustissimo, per carità. Ma l’esperienza mi ha insegnato che tanto il conto finirà con lo spostarsi su chi verrà dopo, perché nessuno vuole davvero scontentare quel 21% di sessantacinquenni e oltre che abita in Italia (dati censimento Istat 2011) che corrispondono a quattro anziani per un bambino.

Poi leggo che anche il governo ha le sue idee. La stampa riporta che il ministro Poletti dice che vuole riformare la legge Fornero per consentire una maggiore flessibilità in uscita dei pensionandi (ai quali certo non appartengo) purché ciò sia fatto in maniera economicamente sostenibile. Se ne parlerà in sede di legge di stabilità, ha spiegato, quindi non prima di settembre.

Capisco che sta per ripartire la lotteria delle pensioni, e non credo neanche per un attimo che non sarò chiamato a pagarne il conto.

Mi preparo ad assistere al desueto balletto che va in scena ormai da un ventennio, e mi propongo di farlo provando ad essere bene informato.

Perciò mi preparo leggendo un vecchio libro di Maurizio Ferrera e altri (Alle radici del welfare all’italiana, Marsilio), che ben rappresenta cosa siano state le pensioni in Italia e cosa siano tuttora. Lo faccio senza pregiudizi, convinto come sono che il modo in cui uno spende i propri soldi dica molto del suo carattere e che tale principio valga anche per gli stati e le comunità che li esprimono.

E scopro così che l’ossessione per la pensione rivela molto del nostro carattere di italiani, tanto è antica e consolidata. Noi italiani abbiamo a cuore le pensioni, che di fatto vengono vissute come una lotteria che consente, una volta vinta, di realizzare il sogno che fu di mio padre. Mentre assai meno interessati siamo stati a sviluppare un sistema di welfare che tuteli davvero chi perde il lavoro o non lo trova.

Ho la fastidiosa sensazione che il retropensiero sia: tutelare gli anziani, e che i giovani si arrangino.

E rilevo che questa ossessione per la difesa della vecchiaia non data da oggi, che gli anziani sono in maggioranza relativa, ma dall’altro ieri, quando erano una minoranza.

Mentre mi interrogo sul nostro carattere nazionale e scorro il volume di Ferrera trovo un dato che più di tutti mi fa riflettere.

Nel 1955, dopo la prima generosa riforma incrementale delle pensioni, la spesa pensionistica italiana, a valori correnti, era schizzata a 274 miliardi di lire, a fronte dei 169 di appena tre anni prima.

Ripesco a memoria i dati sulla spesa pensionistica dei nostri giorni e mi accorgo che, a valore corrente, e quindi nominale, è più o meno la stessa: circa 270-80 miliardi. Ma di euro.

Ne deduco che in 50 anni la spesa pensionistica italiana si è moltiplicata a valore nominale per quasi 2.000, circostanza che certo non si è verificata per il costo della vita.

Mi chiedo se si sia verificato un altrettanto esorbitante aumento della spesa pubblica in un qualunque altro campo di intervento.

Mi chiedo come sia stato possibile.

E capisco che devo rassegnarmi a studiare un po’ di storia.

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