Ormai – va detto con chiarezza – quell’aggregato di gruppi litigiosi che si chiama Forza Italia sembra muoversi “etsi Silvius non daretur”, per parafrasare la celebre espressione coniata dal filosofo olandese Ugo Grozio nel 1625.
Forse non si è riflettuto abbastanza sul fatto che Berlusconi non è più disponibile, un po’ per scelta e un po’ per necessità, a servirsi di quel mezzo che in passato è stato cruciale per la realizzazione dei propri fini, tanto in politica quanto nello stile di vita: il “dono” (in questo senso, il ritiro dell’assegno alle “olgettine” ne ha rappresentato il simbolo più eclatante).
Da Putin a Tarantini, il dono per Berlusconi è stata la materia prima del suo sistema di alleanze politiche come del suo harem. In un saggio di Marco Revelli (Povertà della politica, politica della povertà, in Berlusconismo, a cura di Paul Ginsborg e Enrica Asquer, Laterza, 2011), si può leggere un’analisi magistrale della munificenza dell’ex Cavaliere.
Essa è stata l’elemento distintivo del suo profilo di leader, che caratterizza quelle forme di personalizzazione patologica del potere iscritte da Max Weber nella categoria del “patrimonialismo”. Tuttavia, osserva Revelli, chiunque conosca anche solo superficialmente la letteratura sul dono, non ne può ignorare il significato ambivalente o, meglio, ambiguo. Il termine gift vuol dire dono in inglese, ma veleno in tedesco. In effetti, fiabe e miti sono pieni di doni avvelenati, che portano alla rovina chi li riceve. Basta ricordare il cavallo di Troia e il vaso di Pandora, il pomo di Adamo e il bacio di Giuda, la mela di Paride e la mela della strega di Biancaneve.
Talvolta, però, i doni avvelenati, quelli che cementano il reticolo pervasivo delle fedeltà e delle obbligazioni reciproche, possono portare alla rovina anche chi li dispensa. È il caso dei tanti imprenditori e faccendieri protagonisti degli scandali che si sono succeduti in questi anni. E forse il Cavaliere ha fiutato lo stesso pericolo.
Ad esempio, l’affaire Ruby – al di là dei suoi esiti giudiziari – riflette qualcosa di più profondo. Segnala il disfacimento di un modello culturale su cui certa destra ha costruito buona parte delle sue fortune politiche. Un modello secondo cui nel “dono non ci sono diritti”. Vale a dire che nella sfera pubblica devono dominare i rapporti tra ineguali, in cui si finisce per offrire fedeltà in cambio di protezione, favori in cambio di benevolenza. Un processo in cui si genera su scala di massa servilismo e discrezionalità. Sono due fenomeni – come chiosa sempre Revelli – che corrodono profondamente ogni società democratica.
La politique du boudoir di Berlusconi ne è stato l’interprete ideale. Essa ora sembra giunta a un punto di non ritorno. Attenzione, comunque. Non sarà qualche altra intercettazione pruriginosa a decretarne la fine. Ci vuole qualcuno che spieghi bene agli italiani che è più conveniente una politica dell’eguaglianza. Nel senso che quanto più chi dona (anche ottanta euro in busta paga) e chi riceve stanno su un piede di parità, tanto meno il secondo rischia una soggezione umiliante. Ma oggi, nel Belpaese, c’è questo qualcuno?
Ogni riferimento a Matteo Renzi non è puramente casuale.