Sarà pure colpa del freddo, come si sono affrettati a dire in tanti commentando l’andamento deludente del Pil Usa nel primo trimestre 2015 americano, ma sospetto leggendo qua e là che più che la meteorologia a gelare l’economia statunitense sia stato il clima globale, divenuto d’improvviso avverso all’economia americana.
Ne ho un primo sentore quando leggo nell’ultimo bollettino della Bce che l’andamento del Pil americano ha risentito “in larga misura del contributo negativo della domanda estera” .
E poi un altro, quando leggo nel Global financial stability review del FMI che il QE europeo si prevede origini deflussi imponenti dagli asset europei, nell’ordine di un trilione di euro, a causa del calo brusco dei rendimenti. E poiché non è che ci sia tutta questa roba da comprare all’estero, ne deduco che questo fiume di denaro andrà a ingrossare il già imponente mare dove naviga il dollaro, destinato, complice anche l’ormai imminente avvio dell’exit strategy americana, a rafforzarsi, con tutto ciò che ne consegue per le economie emergenti e la nostra.
Approfondisco leggendo la nota sul Pil del primo trimestre americano diffusa dall’ufficio statistico Usa (BEA), dove c’è scritto che “la crescita del Pil reale nel primo quarto 2015 (+0,2%, ndr) riflette contributi positivi dalla spesa per consumi personali e dagli investimenti privati, che sono stati in parte erosi dal contributo negativo dell’export, dagli investimenti fissi esteri e dalla spesa del governo”.
Insomma: la crescita americana rimane in territorio positivo soprattutto grazie ai consumi privati, che però sono decelerati, ma soprattutto ha risentito del calo delle esportazioni, cui probabilmente ha contribuito, oltre all’andamento deludente della domanda globale, il rafforzamento della valuta seguito alla svalutazione europea e giapponese.
In particolare, i consumi reali sono aumentati dell’1,9% nel primo trimestre 2015, a fronte del 4,4% del quarto trimestre 2014. I beni durevoli sono cresciuti dell’1,1%, a fronte del 6,2% precedente, mentre i beni non durevoli sono diminuiti dello 0,3%, che si confronta con il +4,1% del trimestre precedente. Rallentano anche i servizi, dal 4,3 al 2,8%.
Sul versante degli investimenti fissi, quelli dei non residenti sono diminuiti del 3,4%, a fronte di un aumento del 4,7 a fine 2014, mentre quelli dei residenti sono aumentati dell’1,3% a fronte del +3,8 del trimestre precedente.
Quanto all’export, i numeri si fanno più corposi. Le esportazioni reali sono diminuite del 7,2% nel primo quarto 2015 a fronte dell’aumento del 4,5% dell’ultimo quarto 2014, mentre le importazioni sono aumentate dell’1,8 a fronte del 104 di fine 2014.
A fronte di questi dati, il BEA rileva una crescita della ricchezza personale e del risparmio. Circostanze queste ultime, cui certo hanno contribuito i recenti ribassi dei corsi petroliferi oltre che alcune scelte fiscali americane, che convincono i tanti osservatori che guardano agli Stati Uniti che comunque le prospettive dell’economia Usa, che si fonda in gran parte sui consumi interni, troverà al suo interno le risorse per mantenersi robusta nei trimestri successivi.
Il che è sicuramente possibile, mentre è difficile capire quanto sia probabile.
Noto però che il contributo dell’export netto al Pil è diventato negativo già dal 2014, assai prima quindi che iniziasse la svalutazione dell’euro, e che nel primo trimestre 2015 il contributo negativo dell’export ha quasi del tutto compensato la spesa dei privati residenti per beni e servizi.
In particolare, quest’ultima ha dato un contributo positivo dell’1,31% sul Pil (a fronte del 2,98% del quarto trimestre 2014), mentre l’export netto ha eroso l’1,25% del tasso di crescita, un contributo negativo mai così elevato dal 2011 a oggi.
Insomma: alla vigilia dell’exit strategy gli Usa si trovano indeboliti sul versante estero proprio a causa della forza del dollaro, che se da un lato rafforza la domanda dei residenti, dall’altro scoraggia quella dei non residenti, sia sul versante dei beni che su quella degli investimenti. L’aumento dei tassi non potrà che esacerbare i rischi per la crescita derivanti dalla trappola del dollaro forte.
Sarà per questo che la Fed ripete sempre di non aver fretta.