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Ecco come la Grecia influenzerà l’euro

Fa parte della tattica il continuo annuncio da parte greca di una soluzione imminente nei negoziati in corso con i creditori. Tutto è pronto, ci viene detto da mesi. In questo modo, a livello quasi subliminale, la Grecia cerca di spiazzare gli interlocutori e di fare passare l’idea che i cattivi sono gli altri. Nelle ultime ore questo messaggio è stato di nuovo ripetuto e rilanciato e i mercati, ancora una volta, hanno ripreso a sperare. Noi naturalmente non sappiamo se le cose stiano davvero per sbloccarsi o no. Avanziamo però l’ipotesi per cui, se si risolveranno, saranno le borse e i crediti a trarne il beneficio maggiore, mentre l’euro, al di là delle ricoperture iniziali che potranno spingerlo brevemente di nuovo verso 1.15, rimarrà strutturalmente debole.

Infatti, anche nel caso di un compromesso accettabile, la crisi greca avrà comunque dimostrato varie cose, tutte negative per l’euro. La prima è che la moneta unica è un accordo tra governi, non tra stati. Per cambiare una virgola in una costituzione occorrono anni e maggioranze schiaccianti, per uscire dall’euro bastano un decreto nel cuore della notte e una rotativa che stampi nuove banconote. Anche gli Stati Uniti, si sa, hanno la loro Grecia. Puerto Rico è un territorio dell’Unione, un pre-stato esattamente come erano i territori del West nell’Ottocento. I portoricani hanno il passaporto americano, pagano alcune tasse a Washington e hanno in tasca dollari americani.

L’isola è cronicamente depressa e male amministrata. Per aiutarla, il Congresso ha sempre concesso una tripla esenzione fiscale (federale, statale e locale) sui redditi e i capital gain derivanti dai bond emessi dal governo di Puerto Rico. Il risultato è che tutti i ricchi americani hanno nel loro portafoglio i municipal bond dell’isola. L’altro risultato è che l’isola si è indebitata fino al collo e ora è sull’orlo della bancarotta (che verrà probabilmente evitata anche questa volta).

I suoi bond rendono ormai il 10 per cento esentasse, ma a nessuno è mai venuto in mente, né a Washington né a San Juan, di sganciare l’isola dal dollaro e creare un peso portoricano svalutato. L’euro, d’altra parte, è una valuta in balia di 19 governi sempre più instabili. La frammentazione crescente del paesaggio politico europeo è considerata da politologi come George Friedman di Stratfor o Ian Bremmer di Eurasia come uno dei principali pericoli per la stabilità globale.

I toni chavisti di Podemos, la Gran Bretagna che vuole uscire dall’Unione Europea, il nazionalismo rampante nell’est del continente, il lepenismo, la disaffezione nell’opinione pubblica verso un’Europa che fa l’impossibile per non farsi amare, tutto converge verso un euro debole come lubrificante che possa dare un po’ di colore a un’economia ossificata e permettere in questo modo di recuperare almeno una parte del consenso perduto. La Germania, molto preoccupata per l’ingovernabilità crescente dell’Unione, se ne rende conto benissimo e non è un caso che nessuno, al contrario che in passato, si lamenti dell’euro debole. Anche gli Stati Uniti lo accettano come male minore rispetto a un’Europa in pezzi.

In caso di accordo tra Grecia e creditori saremo dunque compratori di borse europee e di bond della periferia, ma saremo venditori di euro in caso di recupero verso 1.15.

(testo estratto dalla newsletter Il Rosso & Il Nero)



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