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Vi spiego perché l’Europa deve imitare l’Australia sull’immigrazione. Parla Lo Prete

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo un estratto dell’intervista di Goffredo Pistelli a Marco Valerio Lo Prete uscita sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi

Alla fine d’aprile ha pubblicato sul Foglio, di cui è vicedirettore, un’intervista ad Andrew James Molan, un generale in pensione dell’esercito australiano, cui il governo di Canberra ha affidato il contrasto degli sbarchi illegali d’immigrati via mare, riducendoli del tutto con un’azione continua di respingimenti, girando le prue delle imbarcazioni verso l’Indonesia o da dove erano partite.

Marco Valerio Lo Prete, romano, classe 1985, conosce bene quel Paese per avervi studiato, all’Università di Melbourne: «Mi occupai proprio del fenomeno dell’immigrazione e di come quel paese lo affrontava, di come la politics generava le policies».

Lo Prete, l’Australia, Paese nato dagli immigrati, si oppone all’immigrazione incontrollata.

Ecco, il tema chiave, per loro, sta proprio in quell’aggettivo: «incontrollata». Per la storia che ha, quel Paese non è a priori contrario all’immigrazione.

Politicamente nessuno si oppone, in via di principio?

No, non esiste neppure una destra xenofoba. Gli stessi laburisti ondeggiano fra aperturismo e gestione muscolare. Quando erano al governo firmarono un accordo con lo Sri-Lanka, dove prevedevano di spedire i rifugiati arrivati illegalmente, accettando di autorizzare in cambio due ingressi regolari per ogni respingimento: volevano dimostrare che non c’era un «no» all’immigrazione e che, anzi, erano generosi. Era un «no» all’immigrazione incontrollata.

Ci sarà pure qualche posizioni contraria?

Ci sono posizioni umanitariste aprioristicamente favorevoli a un approccio lassista, quelle delle organizzazioni non governative e dello stesso partito dei verdi. Poi però c’è pure chi si oppone alle frontiere aperte su basi ecologiste, come il Sustainable Population Party, piccola formazione nata però in ambito accademico la quale, dati alla mano, dice che l’Australia è al limite da un punto di vista della numerosità della popolazione.

Ma è un continente, in pratica, ed è abitata solo da 23 milioni di persone.

Sì, ma le zone dove il clima è favorevole, quelle costiere, specialmente nella fascia sud-orientale, sono già densamente popolate. E c’è un problema notevole di mancanza d’acqua, per esempio.

E qual è il dibattito politico sull’immigrazione?

Riguarda la quota di immigrati regolari, cosiddetti skilled, cioè dotati di competenze per questo o quel settore. Su 190mila ingressi pianificati, l’anno scorso, 128mila appartenevano a profili specifici, dai laureati ai minatori, di cui il Paese ha bisogno. Semmai c’è da notare una cosa.

Quale?

Che là il dibattito si fa coi numeri, costantemente aggiornati, e disponibili a tutti: cittadini, politici, giornalisti. Da noi non è così.

Ma la ricetta dei respingimenti in mare del premier conservatore Tony Abbott potrebbe essere applicata da noi? È davvero facile «girare la prua di un barcone», come ha raccontato il suo generale nell’intervista?

Sul fatto che sia facile, non metto la mano sul fuoco. Però dagli australiani bisogna imitare questo approccio pragmatico e questo dibattito razionale. Abbott e il generale Molan, oltretutto, possono rivendicare il carattere umanitario dell’Operazione «Confini sovrani»: nel 2014 non è morto nessuno in mare e sulle coste sono arrivate illegalmente meno di 200 persone, laddove, con la gestione laburista, erano affogate oltre 1.500 persone e nel 2013 c’erano stati 23 mila sbarchi. Inoltre, avere il controllo dei propri confini, è premiante agli occhi dell’opinione pubblica. Così i Conservatori possono vantare di aver accolto nel complesso più immigrati del precedente governo laburista.

Torniamo alla policy australiana dei respingimenti.

Credo che la fattibilità tecnica ci sia. Nel 2011 in Italia sono stati fatti, anche se allora c’era un Paese, la Libia, con cui c’era un accordo. Oggi quel Paese si è dissolto.

Il tema è distinguere i profughi, ossia quanti fuggono da una guerra, da una persecuzione politica, tutelati dalla Convenzione di Ginevra, dagli immigrati irregolari.

E per questo occorre un accordo almeno regionale, da realizzare in Africa, per creare zone dove si possa appunto distinguere chi può essere accolto. L’Australia lo ha fatto con la Cambogia, e i piccoli stati di Papua Nuova Guinea e Nauru, dove sono stati costruiti campi per vagliare le richieste di asilo. D’altra parte facemmo anche noi qualcosa di simile con l’Albania.

L’operazione Pellicano?

Sì nei primi anni ’90, con l’Albania al collasso e il mercantile Vlora che attraccò a Bari brulicante di persone.

Nel 1997, con Romano Prodi al governo e Beniamino Andreatta alla Difesa, la motonave Zeffiro, della marina militare, speronò accidentalmente una motovedetta albanese carica di immigrati clandestini. Fu una strage, morirono 81 persone.

Certo, ci fu anche quella. Ma l’operazione Pellicano era un’altra cosa: creammo un cuscinetto a terra, con viveri, finanziamenti europei e centinaia di nostri militari sulle coste balcaniche.

L’idea dei droni, che qualcuno ha evocato per distruggere i barconi selettivamente, non può essere applicata?

La «guerra pulita», in stile Barack Obama, non ha funzionato da nessuna parte del mondo, anche se gratifica la coscienza di qualcuno. Questa qui non è una guerra, i droni potranno servire ma egualmente uno sforzo sul campo è richiesto.

Quello che si vorrebbe dall’Europa.

Sì, però, di questo continuo rimpallo con Bruxelles, nel quale c’è ovviamente un fondo di verità, non se ne può più. Dura da oltre 25 anni. Se lei riprende i giornali dei prima anni ’90, potrà leggere di Gianni De Michelis, allora ministro degli Esteri, che sollecita «i 12», ché quella era allora l’Europa, ancora Comunità economica, «per una strategia comune». Anni dopo, troverà Beppe Pisanu, ministro degli Interni del governo del Berlusconi II, fare lo stesso appello durante il semestre europeo.

Anche il premier, Matteo Renzi, che usa molto l’argomento degli scafisti, efficace dal punto di vista comunicativo, insiste con Bruxelles.

Anziché parlare degli scafisti, bisognerebbe parlare dei numeri.

Facciamolo.

I numeri dicono che nel 1950, in Africa, vivevano 224 milioni di persone contro i 547 che si trovavano in Europa. Oggi siamo a 1,1 miliardi di Africani e 742 milioni di Europei. Da qui la pressione demografica.

E l’Italia ha visto cambiare i suoi numeri…

Siamo un Paese di immigrazione: nel 2001 avevamo 2,2 milioni di nati all’Estero, nel 2011, col censimento, eravamo passati a 4,8; oggi, stimando anche una quota di clandestini, siamo oltre i sei. Col 10% di non nati in Italia, ci vuole una vera politica dell’immigrazione. Occuparsi solo degli scafisti o dei rifugiati non lo è. E non si può più parlare di «emergenza», quando da 10 anni a questa parte, abbiamo una quota netta di ingressi di immigrati di circa 250 mila all’anno. Aspettare l’Europa, neppure. E comunque la si pensi, il fenomeno va governato.

Pare prevalere l’approccio ideologico.

Lo dicevamo prima e non c’è traccia dei ragionamenti che una democrazia liberale dovrebbe fare sulla quota di residenti futuri che il Paese può avere, sulla sostenibilità economica e sociale del tutto. Ci occupiamo al massimo di barconi, solo di traghettare e solo sull’onda emozionale, generando poi una percezione distorta, perché via mare arriva solo una parte dell’immigrazione irregolare.

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