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Tutti gli errori di Miliband (e le sfide di Cameron)

Le elezioni britanniche avranno profonde conseguenze al di qua e al di là della Manica. David Cameron ha vinto aumentando i propri seggi e distaccando il laburista Ed Miliband. Nessun primo ministro uscente aveva fatto meglio a parte Margaret Thatcher. Il leader conservatore incassa il credito per aver rimesso in moto l’economia seguendo una linea di “austerità pragmatica” e ottiene anche la maggioranza assoluta, dunque potrà fare un governo solido per affrontare due sfide entrambe molto divisive: quella interna con gli scozzesi e quella esterna con l’Unione europea.

L’altro grande vincitore, infatti, è il partito indipendentista guidato da Nicola Sturgeon. Ha preso tutti i seggi disponibili e ha contribuito in modo determinante ad affossare i laburisti (gli scozzesi tradizionalmente votano Labour). La signora Sturgeon ha stravinto promettendo un secondo referendum per l’indipendenza e questa volta potrà avere successo se la maggioranza dei britannici voterà contro la Ue. Gli scozzesi sono europeisti quasi fino al punto da aderire all’unione monetaria, gli inglesi come si sa sono i più isolazionisti (Londra esclusa).

Il confronto sull’Europa impegnerà i prossimi due anni visto che la politica britannica ama discutere in modo radicale le questioni di fondo. Sarebbe sciocco se gli altri europei prendessero sotto gamba questo processo. Sarebbe disastroso e autolesionista se lo facessimo noi italiani. E’ sbagliata e pericolosa l’idea che l’Europa unita sia quella renana che un tempo metteva al centro l’asse franco-tedesco e oggi colloca sul piedistallo la Grande Germania. La Ue senza l’Inghilterra cambia natura. E’ vero che Londra è rimasta a lungo fuori ed è entrata nel 1973 (dunque 15 anni dopo il debutto della Cee) con la Danimarca e l’Irlanda. Tuttavia il club dei sei fondatori (Italia, Francia, Germania e Benelux) ha tenuto fin dall’inizio la porta aperta. In ogni caso, si trattava di avviare un processo inclusivo consustanziale al progetto politico che guidava l’unione.

Ancor oggi l’uscio è spalancato, dicono gli europeisti, nessuno vuole cacciare il Regno Unito. Vero, ma la casa comune di un tempo è diventata un castello pieno di botole, trappole e stanze degli orrori, una costruzione più figlia dell’alto medioevo che dello spirito dei lumi. Gli inglesi pongono alla Ue delle domande e delle sfide che non possono essere ignorate da nessuno: trasparenza, democrazia, sicurezza, difesa, valori. Tutte cose che contano molto più delle etichette sul formaggio. L’unico modo per invertire il senso comune euroscettico è recuperare il perché dell’Europa e le ragioni dello stare insieme. Accadrà? La ragione dice di no, il sentimento lo spera.

Ma le conseguenze del voto britannico sono profonde anche per la sinistra. Miliband – che lascia la guida del Labour – ha cercato di spostare l’asse sempre più lontano dal centrismo blairiano. Si è accorto a sue spese (e del suo partito), che non funziona più. I temi del lavoro e della giustizia sociale che restano i marchi di fabbrica della sinistra europea, non vanno annacquati, ma non possono più essere affrontati con lo spirito della internazionale socialista o del Labour dei minatori. Miliband non è uno sciocco, viene dall’aristocrazia intellettuale del laburismo, ma la rottura con il fratello David, già ministro con Blair, anche se ha connotati personali, è stata un errore disastroso. E’ una lezione che vale anche fuori dalle isole britanniche, se guardiamo allo stato dell’arte nel partito socialista francese, in quello spagnolo, nella socialdemocrazia tedesca e in quella svedese, cioè nelle più forti organizzazioni della vecchia Seconda Internazionale.

L’Italia fa eccezione perché qui, bon gré mal gré, è nato un partito ibrido, un ircocervo se lo si vuol giudicare con i canoni del socialismo, che riesce ad attrarre non solo chi non ha mai letto Karl Marx, ma anche chi non ha più nessuna intenzione di farlo perché lo considera un pezzo da museo. Un partito che faccia riferimento alla “ditta” del movimento operaio, come pensa la minoranza del Pd, è destinato a recitare nella società contemporanea un ruolo molto minoritario. C’è spazio, questo sì, per una protesta radicale, alla Syriza, alla Podemos, alla Grillo, ma è trasversale, populista, barricadiera, non sa governare come dimostra la Grecia o che non lo vuole come il Movimento 5 Stelle in Italia.

La vittoria di Cameron parla anche alla destra. Vince chi ha una idea chiara del Paese e il coraggio di portarla avanti, senza necessariamente fare il piacione o il federatore come si dice oggi. I tories non si sono messi insieme a Nigel Farage, anzi lo hanno asfaltato (lui resta fuori da Westminster, si dimette e l’Ukip prende un solo seggio).

Berlusconi pensa al partito repubblicano americano: Quale? Quello di Lincoln e della guerra allo schiavismo, quello di Eisenhower, di Reagan o dei Bush? Perché come si sa ci sono stati e ci sono ancora molti partiti repubblicani. E’ un modello lontano che poco si addice all’Italia. Forse farebbe meglio a guardare a Londra se vuole rimettere insieme i pezzi di un centro-destra liberale o a Berlino se pensa alla democrazia cristiana. Nell’un caso e nell’altro, resterebbero fuori una Lega come quella di Salvini o una destra come Fratelli d’Italia. Chissà se la politica italiana saprà trarre insegnamenti dal Paese dove sono nate la democrazia liberale, i sindacati e il welfare state?

Stefano Cingolani

Foto: Ed Miliband/Flickr



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