È interessante rilevare che la Banca dei Regolamenti Internazionali, la banca delle banche centrali, non sia per niente convinta della bontà della politica del Quantitative easing. Forse perché non è chiamata ad attuare direttamente le politiche monetarie e può limitarsi al lavoro di analisi.
Rispetto al quasi unanime gradimento e alla sua quasi generale applicazione, il giudizio degli economisti della Bri sul Qe risulta anomalo e comunque meritevole di un’attenta riflessione.
Dal dicembre 2014 la Bce e altre 20 banche centrali nel mondo, sulle tracce lasciate dalla Federal Reserve, hanno deciso di attuare il Qe con grandi immissioni di liquidità per l’acquisto di obbligazioni dei debiti pubblici e di altri titoli del settore finanziario. Queste politiche hanno contribuito a comprimere i tassi di interesse verso lo zero, finanche sotto lo zero.
Nell’immediato, tanta liquidità sicuramente genera una grande euforia nei mercati, manda i listini di borsa alle stelle e crea aspettative di rilancio economico. Nel contempo però i tassi di interesse zero o negativi spingono gli investitori alla ricerca di prodotti finanziari più remunerativi ma ad alto rischio.
Secondo gli analisti della Bri, se il Qe dovesse prolungarsi nel tempo, i problemi nel medio e lungo termine aumenteranno enormemente. Si avrebbe l’ «effetto 5D»: disincentivo, distrazione, distorsione, distruzione e disillusione. Essendo il tasso di interesse il prezzo del debito, quando esso è a livelli ultra bassi disincentiva i governi a ridurre il debito pubblico e ad applicare la disciplina fiscale.
Si fa, infatti, notare che nella zona euro il rapporto debito/Pil è cresciuto in media dal 73,3% del 2007 al 108,4% del 2015, mentre la quota del pagamento degli interessi è scesa dal 2,5% al 2,2% del Pil. In altre parole l’abbassamento del costo del debito crea una falsa convinzione circa la sua sostenibilità. I bassissimi e negativi tassi di interesse non sono la soluzione anzi possono rappresentare un aggravamento, perpetuando un modello di crescita basato sul debito.
I mercati finanziari oggettivamente diventano condizionati dal Qe e, di conseguenza, dipendenti dalla politica monetaria. Vengono purtroppo ancora una volta distratti dalle vere esigenze di un’economia sana che sia fatta di crescita sostenibile, di produttività e di innovazione. Come i dati dimostrano, si resta quindi impantanati nella cosiddetta «recessione dei bilanci», che sono soffocati dagli alti livelli di debito. L’accomodamento monetario può far guadagnare tempo per realizzare eventuali riforme, ma non può rimpiazzarle. In questo modo le banche centrali diventano i primi attori sui mercati finanziari globali.
Definiscono i prezzi, i tassi di cambio, i valori di borsa, i prezzi delle obbligazioni, delle commodity e delle abitazioni, rimpiazzando il ruolo dei fondamentali economici nelle valutazioni di mercato. Non solo si distorcono i prezzi delle attività e degli asset, ma quelli delle obbligazioni vengono sganciati dal loro effettivo livello di rischio e i valori delle azioni quotate nelle varie borse vengono gonfiati artificialmente da una domanda drogata dalla nuova liquidità.
Che succederà quando le banche centrali smetteranno di comprare titoli e fermeranno le loro politiche di stimolo? Non si può determinare con precisione quando, ma con certezza possiamo dire che ad un certo punto si creerà il cosiddetto “Minsky moment”, cioè quel momento, individuato dall’economista americano, nel quale si verificherà una generalizzata perdita di fiducia nei valori artificialmente gonfiati.
Un prolungato periodo di tassi di interesse ultra bassi causa anche la «distruzione del business» delle banche, delle compagnie di assicurazioni e dei fondi pensione. Con grandi rischi per la stabilità.
I suddetti istituti finanziari purtroppo non si sono mai posti la domanda del come operare quando le banche centrali applicano tassi di interesse negativi per i depositi. Ora devono coprire loro le perdite o scaricarle sui loro clienti? Nel primo caso ne risentirebbero i loro profitti. Nel secondo caso i risparmiatori si chiederebbero: perché tenere i risparmi in banca se c’è un costo da pagare?
In particolare i fondi pensione e le assicurazioni si troveranno in difficoltà a far fronte ai loro impegni fissi di lungo periodo: saranno spinti verso investimenti più rischiosi che potrebbero incidere sulla loro solvibilità.
Da ultimo la disillusione, generata dal fatto che le politiche del Qe non possono risolvere i problemi della recessione economica, potrebbe avere delle conseguenze negative sulla credibilità delle stesse banche centrali.
Sorge legittimo il dubbio che con queste politiche le banche centrali, anziché risanare, possano accentuare ancor più i dominio finanziario nei mercati e nella gestione del debito pubblico. Non ci pare saggio giocare in questo modo con il futuro, quello delle economie e soprattutto quello dei nostri figli.
Mario Lettieri, già sottosegretario all’Economia e Paolo Raimondi, economista