La morale della storia mi appare evidente non appena finisco di leggere la lunga sentenza della Corte Costituzionale che ha imposto al governo di restituire con gli interessi le somme non erogate ai pensionati, in virtù dell’obbligo di rivalutazione, per gli anni 2012 e 2013.
La morale della storia è che quelli sulle pensioni sono risparmi con l’elastico. E quando tornano indietro fanno molto male, come dimostra la cronaca dei nostri giorni.
E questo non succede perché la Corte Costituzionale sia cattiva o insensibile. Ma perché abbiamo costruito nei decenni un sistema di regole, giuridiche o giurisprudenziali, che di fatto vanifica ogni possibilità di agire sulle pensioni. Se anche il governo decidesse di agire, come pure dice di voler fare, troverà sempre un giudice, sia esso civile, contabile, amministrativo o costituzionale (dulcis in fundo), che potrà invalidare quanto deciso. Per la semplice ragione che l’edificio della (im)previdenza pubblica è tanto barocco quanto inespugnabile. E la sentenza della Corte Costituzionale ne è preclaro esempio.
Oggetto del contendere, nella fattispecie, è il meccanismo della perequazione automatica che fu impiantato nel sistema previdenziale nei generosi anni ’60, che proseguirono la fase incrementale e profondamente diseguale del welfare italiano impiantata negli anni ’50.
La Corte Costituzionale traccia un breve storia di questo istituto, che vale la pena riportare qui, per far capire l’andazzo delle vicende previdenziali nel nostro Paese.
“La perequazione automatica, quale strumento di adeguamento delle pensioni al mutato potere di acquisto della moneta, – ricorda la Corte – fu disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903, con la finalità di fronteggiare la svalutazione che le prestazioni previdenziali subiscono per il loro carattere continuativo. Per perseguire un tale obiettivo, in fasi sempre mutevoli dell’economia, la disciplina in questione ha subito numerose modificazioni.
Con l’art.19 della legge 30 aprile 1969, n. 153 nel prevedere in via generalizzata l’adeguamento dell’importo delle pensioni nel regime dell’assicurazione obbligatoria, si scelse di agganciare in misura percentuale gli aumenti delle pensioni all’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT, ai fini della scala mobile delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria”.
Questo regime andò avanti fino al 1992, anno di grandi cambiamenti, quando fu varato il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 che stabilì la periodicità annuale degli adeguamenti perequativi e si stabilì che gli adeguamenti fossero calcolati sul valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di
operai ed impiegati. In tal modo si sganciò la perequazione dalla dinamica salariale, che si era rivelata parecchio onerosa, collegandola al livello medio dell’inflazione. Ma sempre con l’elastico, visto che all’articolo 11 della stessa norma si previde che “ulteriori aumenti potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in relazione all’andamento dell’economia”.
Un altro cambiamento intervenne nel 1998 (legge 23 dicembre 1998, n. 448). All’epoca i politici si preoccuparono persino di “di tutelare i trattamenti pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta, che tende a colpire le prestazioni previdenziali anche in assenza di inflazione”.
Non riesco a capire quali possano essere queste “erosioni del potere di acquisto anche in assenza di inflazione”, e mi chiedo se tanta premura sia stata adoperata anche per il calcolo delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.
Quindi si decise che le pensioni dovessero aumentare a prescindere dall’inflazione. In pratica un meccanismo di rivalutazione automatico che funziona “in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo”.
Dovrei stupirmi poi quando vedo che l’unica classe che ha visto crescere significativamente il proprio reddito equivalente in Italia fra il 1991 e il 2012 siano i pensionati (vedi grafico)?
Tanta generosità fu emendata due anni dopo (legge 23 dicembre 2000, n. 388), che dispose come la rivalutazione automatica spettasse per intero “soltanto per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici fino a tre volte il trattamento minimo INPS. Spetta nella misura del 90 per cento per le fasce di importo da tre a cinque volte il minimo ed è ridotto al 75 per cento per i trattamenti eccedenti il quintuplo del minimo”.
Nessuno si lamentò, ovviamente.
Tantomeno quando nel 2007 (l’art. 5, comma 6, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81) si previde per il triennio 2008-2010 una perequazione al 100% anche per la fasce di importo fra tre e cinque volte il minimo (prima era il 90%).
La Corte ne deduce che “soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate dall’erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle pensioni”.
La storia delle sospensioni degli adeguamenti perequativi è altrettanto articolata.
Sempre nel 1992, ma a settembre e quindi prima della riforma di dicembre, quando fu varata la mitica finanziaria Amato (casualmente oggi giudice costituzionale) si dispose il blocco degli adeguamenti “in attesa della legge di riforma del sistema pensionistico e, comunque, fino al 31 dicembre 1993″. E tuttavia in sede di conversione del decreto, a novembre, “si provvide a mitigare gli effetti della disposizione, che dunque operò non come provvedimento di blocco della perequazione, bensì quale misura di contenimento della rivalutazione, alla stregua di percentuali predefinite dal legislatore in riferimento al tasso di inflazione programmata”. Si arrivò così al provvedimento di dicembre ’92 che abbiamo visto.
Ma anche stavolta si trattò di un risparmio con l’elastico.
A dicembre 1993 (legge 24 dicembre 1993, n. 537) si provvide “a restituire, mediante un aumento una tantum disposto per il 1994, la differenza tra inflazione programmata ed inflazione reale, perduta per effetto della dell’art. 2 della legge n. 438 del 1992″.
Di conseguenza “il blocco, originariamente previsto in via generale e senza distinzioni reddituali dal legislatore del 1992, fu convertito in una forma meno gravosa di raffreddamento parziale della dinamica perequativa”.
Quando finalmente entrò in vigore il sistema contributivo, si decise (art. 59, comma 13 della legge 27 dicembre 1997, n. 449) un azzeramento della perequazione automatica, per l’anno 1998. Norma peraltro che la stessa corte Costituzionale definì legittima (ordinanza n. 256 del 2001) forse perché limitava il campo di applicazione ai soli trattamenti superiori a cinque volte il minimo.
Prima della norma ora bocciata dalla Consulta c’era stato un altro tentativo (nell’art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247) di fermare temporaneamente la rivalutazione delle pensioni, limitato però ai trattamenti superiori a otto volte il minimo.
Anche allora qualcuno di questi signori con pensioni superiori a otto volte il minimo, evidentemente poco inclini alla generosità, aveva fatto causa. La Corte ha deciso con sentenza 316 del 2010, ponendo in evidenza “la discrezionalità di cui gode il legislatore, sia pure nell’osservare il principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza delle pensioni”.
Ma in quell’occasione non la spuntarono, perché “le pensioni incise per un solo anno dalla norma allora impugnata, di importo piuttosto elevato, presentavano margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo”.
Nella stessa sentenza del 2010 la Corte aveva “indirizzato un monito al legislatore, poiché la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità”. Ciò in quanto “le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”. Il che, con tutto il rispetto per la Corte, mi fa sorridere.
La norma bocciata però “realizza un’indicizzazione al 100 per cento sulla quota di pensione fino a tre volte il trattamento minimo INPS, mentre le pensioni di importo superiore a tre volte il minimo non ricevono alcuna rivalutazione. Il blocco integrale della perequazione opera, quindi, per le pensioni di importo superiore a euro 1.217,00 netti”.
Ed è questo che la Corte contesta: “Le modalità di funzionamento della disposizione censurata sono ideate per incidere sui trattamenti complessivamente intesi e non sulle fasce di importo”, con l’aggravante che “non solo la sospensione ha una durata biennale: essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato”.
Il che, mi pare ovvio, è una constatazione delle Corte, che perciò definisce lei quanto sia elevato un trattamento pensionistico.
A peggiorare il danno la constatazione che non solo la norma bocciata si differenzia dal passato, ma anche da quello che è venuto dopo.
A dicembre 2013 (legge 27 dicembre 2013, n. 147) si previde per il triennio 2014-2016, l’azzeramento della perequazione automatica per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014, mentre per le altre tornò a valere il principio della perequazione per fasce. “Anche tale circostanza conferma la singolarità della norma oggetto di censura, commenta la Corte.
Quindi la conclusione “la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, della Costituzione”.
La tecnicalità della perequazione dipende “dalle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario”, ma sempre in aderenza con i principi costituzionali. Tanto è vero che “questa Corte ha tracciato un percorso coerente per il legislatore, con l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli”.
Da qui la decisione finale: “Sono stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con «irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività».
Quindi due anni di mancata rivalutazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo ha pregiudicato il potere d’acquisto dei pensionati, frustrando le loro aspettative di vita.
Ma è la premessa alla bocciatura che bisogna tenere a mente: “Questa Corte si era mossa in tale direzione già in epoca risalente, con il ritenere di dubbia legittimità costituzionale un intervento che incida «in misura notevole e in maniera definitiva» sulla garanzia di adeguatezza della prestazione, senza essere sorretto da una imperativa motivazione di interesse generale.
E attenzione: non basta fare un generico riferimento, qualora si decidesse di tagliare, alla “contingente situazione finanziaria”, senza che “emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi”. Perché sennò il diritto dei pensionati ad avere una pensione adeguata viene sacrificato “nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”.
Forse un bel default della previdenza convincerebbe i nostri supremi giudici.