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Tutte le stranezze sui debiti pubblici in Europa

Scarsità e abbondanza. Sono due parole chiave, che richiamano altrettanti concetti chiave in economia: ciò che è scarso ha un prezzo alto, mentre ciò che invece è disponibile in abbondanza ha quotazioni decisamente più a buon mercato.

Ma è sempre vero? Non secondo Didier Le Menestrel, presidente di Financière de l’Echiquier, una delle prime società di gestione francese a capitale privato, detenuta cioè al 100% dai suoi dipendenti. Le Menestrel spiega come, con le categorie stravolte dalla lunga crisi in cui ci trasciniamo da oltre cinque anni, non sempre ciò che è facile da trovare è a buon mercato, mentre ciò che manca è caro.

SCARSITà E ABBONDANZA NELLA FORMAZIONE DEI PREZZI
“I temi della scarsità e dell’abbondanza sono agli investitori – scrive Le Menestrel – che a giusto titolo vogliono ravvisarvi gli elementi essenziali per la formazione dei prezzi. Le capacità di calcolo e di archiviazione informatica offrono un buon esempio: l’offerta si è sviluppata a un ritmo tale che dal 2006, quando Amazon ha iniziato ad affittare gli spazi sulla sua piattaforma cloud, a oggi, AWS (Amazon Web Services) ha ridotto i suoi prezzi di 46 volte. Seguendo lo stesso ragionamento, se analizziamo le componenti dell’indice americano dei prezzi al consumo dal 2010 a oggi, il contributo negativo principale proviene dai televisori: l’abbondanza è spesso sinonimo di deflazione dei prezzi. Se ciò che è scarso è caro, non stupisce che ciò che è ogni giorno un po’ meno raro vada incontro a una diminuzione del prezzo”.

CHI SFUGGE ALLA REGOLA
Ma ci sono alcune categorie che sfuggono a questa regola. Innanzitutto le materie prime agricole, come zucchero, cotone, mais, che “presentano ora prezzi del 30% inferiori al prezzo medio registrato negli ultimi cinque anni. Eppure non abbiamo assistito a raccolti eccezionali o a rivoluzioni tecnologiche tali da moltiplicare la produttività degli ettari coltivati. E che dire del rame, anch’esso lontano dai massimi storici, ma che sembrerebbe scarseggiare sempre più e disporre di riserve stimate per una quarantina d’anni appena?”.

L’EFFETTO DEL RALLENTAMENTO GLOBALE
La spiegazione del calo delle materie prime sarebbe da imputare semplicemente al rallentamento congiunturale della crescita mondiale. Lo dimostra anche il caso del rame, la cui domanda, per circa la metà del totale, arriva dalla Cina che ha di molto ridotto il consumo per via dal raffreddamento della crescita. “La comprensione della dinamica dei prezzi delle materie prime oscilla tra due griglie di lettura difficili da conciliare – spiega Le Menestrel – da una parte, la griglia del lungo termine, che fa spesso riferimento al numero di anni di riserve disponibili (120 anni per il ferro, 60 anni per il petrolio e appena 20 anni per l’oro), e dall’altro la griglia del breve termine, che si basa sulla domanda recente e gli adeguamenti di capacità produttiva”.
I sostenitori della lettura di lungo termine sono spesso colti in fallo dalle innovazioni: nel caso del petrolio, per esempio, la scoperta dello scisto ha messo in crisi i teorizzatoti della fine dell’oro nero. Mentre chi propende per la lettura di breve termine viene sballottato dalla minima variazione congiunturale.

DEBITO EUROPEO: IL Più DISPONIBILE E IL Più CARO DI SEMPRE
“L’esempio delle materie prime rammenta all’investitore quanto sia complesso tentare di conciliare breve e lungo termine – conclude Le Menestrel – Ricorda anche che ciò che è raro può essere a buon prezzo e che l’abbondanza può essere costosa”. E, in questi tempi di crisi, il mercato obbligazionario europeo “ne è una dimostrazione lampante e anche un po’ inquietante. Mentre il rapporto debito/Pil è ai massimi storici, mai nessun debito europeo (tranne quello greco) è stato pagato a così caro prezzo, lo Stato francese presta a 0,46% a 10 anni e ha uno stock di debito (2038 miliardi oggi!) sempre più ingente”.


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