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Lo stabilimento si sfarina e muore

Ci sono entrato in pieno giorno. Intorno, la vita che pullulava di auto, di uomini e donne. Tutti di corsa: affaccendati ma non operosi.
Lui se ne stava adagiato con le sue due enormi spalle da una parte e l’altra della strada. In un assordante silenzio. Assopito. Vecchio, aveva visto crescere quella zona lì intorno. Aveva visto sorgere nuovi fabbricati, disegnare quel reticolo di strade, numerate più che intitolate, che aveva sottratto terreno alla campagna per diventare zona industriale.
Era lo stabilimento industriale più grande e più bello. Il Re. I due fabbricati, disposti da una parte e l’altra della strada, erano collegati da un sottopassaggio che non serviva soltanto agli addetti per spostarsi da un reparto all’altro, ma era funzionale al ciclo di produzione per permettere al prodotto finito di essere trasferito, attraverso una giostra, ai reparti dall’altra parte dove sarebbe stato verniciato prima di essere stoccato. Passare sotto quel reticolo di acciaio, fatto di gabbie e cestelli, che saliva e scendeva, faceva tornare alla mente il luccichio sfavillante, il felice caleidoscopio di rumori delle montagne russe al Luna Park, dove si fa operosità del divertimento. E del Luna Park ora quel gigante aveva quella stessa malinconia. Quella che si prova nel vedere un Luna Park spento di luci e rumori. Abbandonato senza bimbi e Mangiafuoco.
Camminavo attraverso le navate e, senza farlo a posta, seguivo il flusso logico dei pezzi lungo il ciclo di produzione e, mentre mi spostavo da un’area di lavoro alla successiva, sentivo il colpo forte e pieno del maglio della pressa che stampava. L’operosità dell’uomo faber. Camminavo lungo i percorsi in verde destinati agli addetti e per un attimo avevo la sensazione del via vai dei muletti, ciascuno con il suo pallet di materiale. Più frenetici di qualunque esercito di Saruman.
Tra una navata e l’altra una trave reticolare sorreggeva la copertura e i binari su cui due carri ponte se ne stavano fermi uno di fronte all’altro a fine corsa. Come due anziani che masticavano amaro l’artrite dovuta alla forzata inoperosità che ne stava accelerando l’invecchiamento.
Il Re muore e il suo corpo possente che aveva custodito il futuro di tutto il circondario va adesso sfarinandosi. Come per sottrarsi dall’incantesimo di cui è caduto vittima. Quello dell’inoperosità. Ma, soprattutto, quello della retorica che punta l’indice contro l’eccesso di pessimismo.

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