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Tutte le battaglie nella guerra sulle pensioni

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il 30 aprile scorso è stata depositata e successivamente pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 7 maggio la sentenza 70/2015 della Corte Costituzionale (come decisa a maggioranza dai Giudici il 10 marzo), che ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto legge 201/2011, convertito con modificazioni nella legge 214/2011”. Si tratta di quel comma della legge Fornero che, “in considerazione della contingente situazione finanziaria”, riconosceva, per gli anni 2012 e 2013, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici “esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il minimo Inps, nella misura del 100%”.

Non hanno subito pertanto alcuna rivalutazione, nel biennio anzidetto, le pensioni superiori a 1.405,05 euro lordi al mese, nel 2012, e superiori a 1.441,56 euro lordi al mese, nel 2013.
Redattore della sentenza è stata il giudice Silvana Sciarra, sotto la presidenza di Alessandro Criscuolo.
La sentenza in questione ha risposto ai dubbi sollevati nei giudizi di legittimità costituzionale promossi sostanzialmente dal Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, nonché dalle Sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti per la Regione Emilia-Romagna e per la Regione Liguria, attraverso proprie ordinanze.

Nella norma censurata, secondo la Corte Costituzionale, “risultano intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso come retribuzione differita (art. 36, primo comma della Costistuzione) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma della Costituzione). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione e al contempo attuazione del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma della Costituzione”.
La sentenza in esame si pone in perfetta conformità e coerenza con una nutrita serie di precedenti sentenze della stessa Corte, numeri 26/1980, 226/1993, 30/2004, 316/2010, 223/2012, 116/2013, 208/2014, eccetera.

Nelle sentenze prima citate la Corte ha tracciato un percorso per il legislatore con “l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli”, ribadendo che proporzionalità ed adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo, “ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta” (sentenza 26/1980), come avevano indirizzato un monito al legislatore (con la sentenza 316/2010, in particolare) poiché la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, sarebbero entrate in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità, infatti “le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”.

E la sentenza 70/2015 censura esplicitamente proprio il fatto che “non è stato ascoltato il monito” anzidetto.
Vista la chiarezza delle norme costituzionali richiamate, la costanza e la coerenza delle sentenze pronunciate in merito dalla Corte, rimane da comprendere la ragione dell’accanimento (fino alle lacrime, sarebbe il caso di dire) dell’ex ministro Fornero circa la mancata indicizzazione delle pensioni oltre 3 volte il minimo Inps nel biennio 2012 e 2013.

Non sarà forse perché la grande competenza tecnica della prof. Elsa Fornero in materia previdenziale era solo autocertificata, come capita sovente nel mondo accademico italiano? E poi che dire dello “scandalo” delle centinaia di migliaia di “esodati”, la cui salvaguardia complessiva costerà attorno ai 10 miliardi di euro, altro “infortunio” della riforma previdenziale Fornero, nata senza prudenza, senza riflessione, senza gradualità e lungimiranza? Sono solo questi i “risultati” prodotti dai “tecnici prestati alla politica”, capitanati da Mario Monti, nel tempo recente, e da Lamberto Dini, nel passato?

Speriamo di non dover fare, tra qualche tempo, analoghe considerazioni a proposito del professor Tito Boeri, professore bocconiano chiamato alla presidenza Inps senza un minimo di esperienza gestionale di tipo manageriale.
Se la sentenza 70 non sarà aggirata, o dilazionata nel tempo, o vanificata da un nuovo provvedimento legislativo (anch’esso incostituzionale), nel 2012 e 2013 dovrebbe rivivere il meccanismo di adeguamento delle pensioni all’inflazione cosiddetto “a scaglioni”. Ricordo che l’indice definitivo dell’inflazione preso a base per la rivalutazione è stato nel 2012 pari al 2,7% e nel 2013 pari al 3%.

Pertanto l’importo delle pensioni bloccate nel 2012 e 2013 dovrà essere rivalutato in misura piena fino alla fascia di 3 volte il minimo Inps, al 90% per la fascia d’importo tra 3 e 5 volte il minimo Inps, mentre per la parte eccedente l’adeguamento sarà al 75% dell’indice inflattivo.
Ma lo farà il governo? Sussistono seri dubbi se ,da notizie giornalistiche, filtrano indiscrezioni secondo cui Renzi proporrebbe un decreto legge che preveda un restituzione per fasce di reddito fino a 3mila euro lordi mensili.

Comunque la corretta applicazione della sentenza 70/2015 porterà nelle tasche degli oltre 5 milioni e mezzo di pensionati con assegno oltre 3 volte il minimo Inps dai 5mila euro circa a più di 10mila euro di arretrati, con costo complessivo di 10 mld comprendendo interessi e rivalutazione (circa 7 miliardi, tenendo conto del rientro, per lo Stato, del prelievo fiscale Irpef), anche per gli effetti “a cascata” indotti. Infatti la rivalutazione, ora per allora, delle pensioni del biennio anzidetto accrescerà anche la base su cui calcolare la indicizzazione per gli anni successivi.

C’è tuttavia da dire che per il triennio 2014-2016 (a seguito della legge 147/2013 del Governo Letta) si è avuta una rimodulazione in peggio (rispetto alle leggi 448/98 e 388/2000) nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica, che non avviene più a scaglioni, bensì rivalutando l’assegno in funzione dell’importo complessivo della pensione stessa e secondo percentuali decrescenti in rapporto al crescere della misura della pensione, con tutela piena (100%) sempre e solo per i titolari di pensione fino a 3 volte il minimo Inps.
Complessivamente, quindi, i risparmi per il bilancio dello Stato millantati dalla riforma Fornero in materia previdenziale sono stati praticamente annullati dall’infortunio “esodati”, e dallo sforzo di “metterci una pezza”, nonché dalla sentenza 70/2015 della Corte: un vero “buco nell’acqua”, insomma un esperimento mal riuscito.

Quindi non è credibile la promessa di Renzi di distribuire l’inesistente “tesoretto” di 1,6 mld di euro per condizionare le prossime elezioni regionali, come il bonus degli 80 euro mensili aveva orientato a suo favore l’esito delle ultime elezione europee. Si rinnovino piuttosto i contratti del pubblico impiego, bloccati da sei anni e si paghino correttamente le pensioni agli aventi diritto!

La sentenza 70/2015, pur nella sua onestà e chiarezza, non ha avuto tuttavia il coraggio di andare fino in fondo. Infatti ha dichiarato “non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 24, comma 25, della riforma Fornero (Legge 214/2011) in riferimento agli articoli 2,3,23 e 53 della Costituzione.”
Insomma, la Corte non ha riconosciuto che la totale mancata indicizzazione per un biennio delle pensioni oltre 3 volte il minimo Inps possa configurarsi di fatto quale prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria. Infatti, con argomentazioni poco convincenti, sostiene che la norma censurata “non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del titolare di un trattamento pensionistico” e che la disposizione (comma 25) “non fornisce, neppure in via indiretta, una copertura a pubbliche spese, ma determina esclusivamente un risparmio di spesa”.

Quasi che ogni manovra finanziaria non si reggesse proprio su un mix di maggiori entrate e di minori spese nel tentativo di far quadrare, comunque, il bilancio dello Stato!
Insomma, una vera “arrampicata sugli specchi”, che certo non potrebbe reggere qualora, su stimolo di Tito Boeri e sulla base delle intenzioni dichiarate, si venissero a decurtare in modo permanente le pensioni retributive in atto, come già calcolate, formalizzate e poste in godimento, riformandole secondo criteri e meccanismi di tipo contributivo.

La Corte ha altresì dichiarato “inammissibile” la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 24, comma 25, in questione, come sollevata dalla Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti per l’Emilia-Romagna, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 848/1955.
Vengono evocati dalla Corte dei Conti remittente, oltre al principio della certezza di diritto, anche il diritto dell’individuo alla libertà e sicurezza, il diritto di non discriminazione, che include anche quella fondata sul patrimonio, il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa ed indipendente, il diritto alla protezione della famiglia, il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali, eccetera, e tuttavia la Corte costituzionale, in modo apparentemente pretestuoso, asserisce che il difetto nell’esplicitazione delle ragioni di conflitto tra la norma censurata ed i parametri costituzionali evocati (che sono in realtà così evidenti!) “inibisce lo scrutinio nel merito delle questioni medesime, con inammissibilità delle stesse”.

A nostro modesto giudizio, il “mancato coraggio” su questi due profili di illegittimità costituzionale nascono dal fatto che la Corte non vuole fornire in anticipo qualificati “mattoni” a sostegno delle buone ragioni dei contenziosi legali che vanno formandosi, in Italia ed in sede europea, contro le recenti disposizioni peggiorative in materia previdenziale assunte dai nostri legislatori, non solo sotto il Governo Monti.
E tuttavia, nonostante la chiara vittoria della sentenza 70/2015, non possiamo abbassare la guardia in materia di difesa delle nostre pensioni (dirette, indirette e di reversibilità), della loro misura e della loro perequazione automatica.

I pericoli sono ancora presenti, anche perché la politica (anzi: la malapolitica) non si mostra determinata a combattere seriamente corruzione, evasione e sprechi (su cui, purtroppo, lucra quotidianamente) e da cui invece dovrebbero, giustamente e legittimamente, derivare risorse sufficienti per riequilibrare i conti del “sistema Italia”.

Per fortuna che la Federazione Sanitari Pensionati E Vedove (Federspev) c’è e, ben più dei sindacati dei lavoratori attivi, fa la guardia, difende, tutela, come ne contrasta gli attacchi a quell’istituto fondamentale, sul piano economico, sociale e morale, che è la pensione maturata attraverso una vita di sudato lavoro e di adeguati contributi.


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