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Ali Shari’ati, attualità dell’insegnamento di un filosofo sociale islamico

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

In un quadro generale che vede il Medio Oriente come la regione più instabile del mondo e di fronte alle innumerevoli sigle di movimenti ed organizzazioni che usano la etichetta “islamic” – cosa che sgomenta sia noi Occidentali che i più pii musulmani e per la quale anche la Regina Rania di Giordania ha espresso rincrescimento e disapprovazione -, si vogliono considerare qui gli elementi essenziali del pensiero, attuale e ricco di presagi, del filosofo sociale iraniano Ali Shari’ati, nato nei pressi di Mashad nel 1933 e morto, in circostanze ancora da chiarire completamente, a Southampton nel 1977, due anni prima dell’erompere della rivoluzione in Iran che ha travolto, coinvolgendo le forze più diverse, il corrotto e poliziesco regime dello Shah Mohammad Reza Pahlavi.

CHI ERA SHARI’ATI

Il prolifico pensatore iraniano che ha lasciato “contaminare” il suo pensiero con la cultura occidentale, come diceva di lui Frantz Fanon, contemplò le molteplici sfaccettature dell’Islam – Islam religioso e Islam politico – nelle sue magistrali lezioni a Mashhad e a Teheran, che gli costarono anche lunghi mesi di detenzione, e dopo il periodo parigino, che lo portò vicino a Massignon, Sartre e Fanon, fece una sintesi preveggente ed ancora oggi originale e valida. Abbiamo a disposizione un arco di varietà dell’Islam che va dai mistici sufi del semà di Konya ai combattenti di origine occidentale dello IS in Siria ed Iraq, vi è tutto nel mezzo, ed è come nella cristianità: c’è unità del Dio comune per i Tawuhiddun,  ma non c’è unità nella forma, nelle scuole giurdiche e nel rapporto con la politica. Si va da posizioni estreme, ad esempio di chi sostiene il valore solo religioso del Corano, come i neotradizionalisti Jadidi del XIX secolo di cui parla ampiamente a proposito dell’Asia centrale Adeeb Khalid nel suo magistrale “Islam after Communism”, a quelle che considerano il Libro come la Costituzione di uno stato islamico (si pensi alla Hakkimyya – Sovranità di Dio di Sayyd Kutb).

RIFIUTO DELLA VIOLENZA

Shari’ati non avrebbe condiviso la teoria della “fine della Storia” di Fukuyama né quella del “conflitto di civiltà” di Huntington: l’Islam nonostante l’aura del sigillo dei profeti e le militanze violente e barbare non va da nessuna parte né con le violenze, né con la demografia; può solo cercare la via del dialogo e dell’osmosi tra Religione e Politica contaminando la cultura occidentale, cui in definitiva appartiene come amava dire l’allora Sindaco di Venezia Prof. Cacciari, e lasciandosi contaminare, accettando compromessi ineludibili se non si vuole rimanere ingessati di fronte al dinamismo della Storia.  Né questa termina con la fine del conflitto tra un marxismo reale maldestramente realizzato ed un capitalismo occidentale che sembrava vincente e popolare, ma di cui già allora si potevano vedere le crepe, oggi divenute abissi, incapace di esprimere un nuovo ordine mondiale.
Shari’ati amava l’Islam ed era un fervido credente sciita, di questo universo islamico pieno di allegorie ed invenzioni che lo avvicinano al Cristianesimo e lo allontanano dal più disadorno credo sunnita, e questa differenza si ritrova tutta in maniera esemplare nella celebrazione della santa festa dell’Ashura, per esempio in Turchia ed in Iran. Affermava con forza quello che il saggio diplomatico Moghaddam diceva dei Persiani, che trattasi in realtà di Europei ”incastonati” in Asia. Ma temeva e prevedeva l’abuso e la corruzione degli insegnamenti islamici da parte di musulmani aventi per obbiettivo non il Dio unico e comune, ma il potere.  
Era un personaggio scomodo, come lo sono i liberi pensatori di ogni era: non era amato dal clero sciita militante, né dagli sgherri della Savak e neanche dai comunisti del Tudeh, ma moltissimo dai suoi studenti e dagli intellettuali.

Leggeva un Islam che non teme l’Occidente e che, proprio corrompendosi, si fa perfetto e universale. Il Grande Ayatollah Khomeyni, il vincitore della rivoluzione poi divenuta islamica, agì abilmente e con saggezza, traendo dalla traiettoria culturale di Ali Shari’ati elementi sostanziali come l’attenzione per il sociale poi divenuto pauperismo (bastava visitare l’Università religiosa Sureh a Teheran) ed il riscatto dei deboli e degli oppressi, senza mai citare né ringraziare Shari’ati, il cui ritratto nei primi anni dopo il 1979 compariva nelle manifestazioni di piazza con la stessa frequenza di quello dello stesso Ayatollah.
Metteva in guardia, già  negli anni ’70, sul ritorno di dottrine islamiche devianti che avrebbero coinvolto coloro che fossero rimasti delusi dai rappresentanti ufficiali della religione e dai “mercanti del Paradiso”. Quindi non solo comprese  bene quello che stava per accadere in Iran, ma vide quello che sarebbe avvenuto dopo 20-30 anni oltre l’Iran.  

LE DIVERSE INTERPRETAZIONI
 
Naturalmente anche Shari’ati è stato “interpretato” come tutto ed il contrario di tutto, come sostenitore di una fede al servizio dell’Uomo-Valore e non del Potere-Valore, oppure come sostenitore di una rifondazione islamica che in definitiva avrebbe gettato alcool sul fuoco dei fondamentalismi degli ultimi decenni. Shari’ati ha introdotto con coraggio intellettuale il concetto ed il valore della Libertà nel modernismo riformatore islamico, per questo è stato accusato di apostasia e tutte le sue opere sono state proibite.

Le lezioni di Mashhad e Teheran, che è affascinante sbobinare ed ascoltare in farsi, precedono il suo fecondo soggiorno degli anni parigini, ma sono fresche e sognanti, nello stesso tempo concrete ed allarmanti. Non aveva intuito solo gli eventi della rivoluzione iraniana, ma anche le primavere arabe del nostro tempo, quando il potere connivente o tollerante con un Islam privo del candore di una “Yathrib che diventa Medina” provoca reazioni e deviazioni. Così superando i confini temporali giunge sino alla realtà culturale odierna, compresa e prevista mediante un pensiero ibrido, contaminato, come si diceva all’inizio.

Purtroppo non vide, nel bene e nel male, il risultato della rivoluzione iraniana, l’esperimento democratico duale ed il fervore religioso, la sensazione – la chiama così – della liberazione che spesso può condurre da un distacco riservato nella religione domestica alla schizofrenia di una ierocrazia imposta e pervadente.

L’UTOPIA DI UNO STATO ISLAMICO ILLUMINATO

In Shari’ati si può trovare, se proprio si vuole, talvolta un padre della radicalizzazione, ed in altri contesti un teorico neo-Jadidista. Ma in realtà non era né l’uno né l’altro, certo che con la sua utopia realizzabile, uno stato islamico governato da pensatori illuminati e non dai “saggi religiosi”, si poneva in un solco di pensiero che andava a collidere con l’Islam militante ed il governo degli ulama costruito da Khomeyni, di cui massimamente disprezzava il “sommo principio” del Velayat-e faqih che, per altro, non era accettato all’epoca anche da altri illustri esponenti dell’alto clero sciita, in primis il delfino designato e poi rimosso, Ayatollah Montazeri.  
Nel breve arco politico che va dal Presidente Bazargan, il cui movimento Shari’ati aveva appoggiato, al Presidente Bani Sadr, un islamico che aveva a cuore i diritti della persona e che aveva permesso la diffusione delle idee di Shari’ati, si consuma la trasformazione dell’Iran in una repubblica teocratica con il clero sciita che si fa mediatore tra  Dio – Khodà  e i fedeli, prassi che Shari’ati deprecava ed aveva pure stigmatizzato, provenendo da un famiglia borghese, colta e pia dalla città santa di Mashhad.

UN’APERTA INTERPRETAZIONE DEL CORANO

La riflessione del pensatore iraniano prevedeva un’aperta interpretazione del Corano e l’inserimento nel tessuto islamico di categorie di umanesimo socialista e di esistenzialismo. L’incontro a Parigi con l’islamista cattolico Louis Massignon e con il suo maestro ebraico Georges Gurevitch, con cui si addottorò nel 1964, negli anni del grande sviluppo postbellico dell’Europa, rafforzò le idee già enunciate in patria: le religioni abramitiche sono rivoluzionarie e non conniventi o accomodanti con il potere. L’Islam in più mette al centro della sua teologia della liberazione le masse e la loro emancipazione. Anni dopo il Presidente Khatami, appartenente ad una categoria chiamata spesso, con margine occidentale di errore e sufficienza, di moderati riformatori, lamentava che l’Islam di Avicenna e della grande sapienza che ha dato al mondo l’Alhambra, l’alchimia, l’algebra ed i logaritmi versava in una situazione di grande ritardo e debolezza, non era più una civiltà che rispondeva con appropriatezza ai bisogni ed alle sfide degli uomini che cambiano e si differenziano continuamente.
 
L’Islam, secondo Shari’ati, non doveva ritrarsi di fronte al progresso della tecnologia, del sapere scientifico e dello sviluppo sociale occidentale, bensì appropriarsene mediante la crescita di una nuova “società civile islamica”:  è forse il ritratto dei giovani e degli intellettuali di Piazza Tahrir, di Taksim o di al-Nahda? Questa società civile islamica non nasce dal pensiero greco-romano, bensì dalla rinnovata sottomissione a Dio, e comunque le due società civili, la occidentale e la islamica, possono dialogare e persino collaborare, nel rispetto senza riserve “dei fratelli nella fede e dei simili nella creazione”, il che non significa necessariamente la globalizzazione e la uniformizzazione, bensì il dialogo tra le civiltà e la valorizzazione delle diversità, con un interesse frenetico per la conoscenza reciproca: è il ritratto ed il retaggio intellettuale di Shari’ati!


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