Che succede se la Cina s’intrufola in Telecom Italia? La domanda gironzola tra i consiglieri di Palazzo Chigi. L’interrogativo non è per nulla dietrologico, visto che da tempo in ambienti finanziari circolano indiscrezioni sull’interesse dei colossi di Stato cinese per l’ex monopolista italiano, che è ormai una sorta di public company. Le indiscrezioni parlano da tempo di uno sguardo cinese sia sulla capogruppo Telecom Italia, che possiede è la rete fissa in rame, sia sulla controllata Telecom Sparkle, che ha una rete di cavi sottomarini lunga 450 mila chilometri tra Europa, America Latina e Mediterraneo sui quali viaggiano i dati e le telefonate sia di Telecom Italia, sia di altri 500 operatori del mondo che pagano per questo servizio. I super-cavi sottomarini di Sparkle sono un asset di pregio, quanto le reti strategiche di Snam, e Terna. C’è, ad esempio, “Mediterranean Nautilus”, che collega l’Italia alla Grecia, alla Turchia, a Israele.
Dunque per scongiurare scenari “cinesi” il governo sta approntando il ribaltone nella Cassa depositi e prestiti? Di certo in ambienti della presidenza del Consiglio da tempo si sbuffa un po’ per le sintonie che nel tempo i vertici della Cassa presieduta da Franco Bassanini e guidata da Giovanni Gorno Tempini hanno mostrato per partner cinesi. Gli esempi non mancano, come si ricordava due giorni fa dopo aver raccolto rumors governativi: dall’ingresso di Pechino con il 35% in Cdp Reti (che detiene le quote di controllo di Snam e Terna), fino al 40% di Ansaldo Energia venduto dal Fondo strategico (Fsi) della Cassa alla cinese Shanghai Electric Corporation (Sec), passando per l’entrata dei cinesi anche nel secondo fondo di F2i partecipato da Cdp. La Cassa avrebbe quindi compiuto passi che le sintonie obamiane di Renzi sulla finanza non ritengono opportuni. Per questo a Palazzo Chigi sarebbe maturata una convinzione secondo cui i rapporti che di recente la Cassa presieduta da Bassanini ha stretto con fondi e partner cinesi non possono segnare una direzione di marcia permanente per la Cdp dell’era renziana. Anche se in tutti quegli affari “cinesi” Renzi, finora, non aveva eccepito alcunché.
Scrivono oggi Camilla Conti e Stefano Feltri sul Fatto Quotidiano: “Il premier sarebbe molto influenzato dalla visione di consiglieri come Marco Carrai. Il giovane fiorentino è quello più sensibile, nel giro stretto renziano, alle esigenze geopolitiche. E, forte due suoi contatti fra Stati Uniti e Israele, avrebbe convinto Renzi che la partita su Telecom è soprattutto una questione di sicurezza nazionale. Bisogna evitare che la rete finisca in mano ai tanti pretendenti internazionali – da Sawiris a gruppi cinesi – che si aggirano attorno all’azienda telefonica”.
Questo significa che Renzi, Andrea Guerra e Carrai vogliono rottamare i vertici di Cdp per far entrare più facilmente la Cassa in Telecom al fine di difendere gli asset ritenuti strategici di Telecom? Chissà. C’è però chi sostiene come proprio una operazione del genere rientrava fra i progetti mai esplicitati dallo stesso Bassanini, con tanto di ingresso nel capitale di Telecom, per accelerare il passo ritenuto troppo felpato del gruppo capitanato dall’ad, Marco Patuano, sugli investimenti sulla fibra ottica.
Il fattore “geopolitico” ha di certo un peso nell’operazione renziana in corso per spodestare con un anno di anticipo Bassanini e Gorno Tempini. Operazione architettata senza consultare troppo né il ministero dell’Economia retto da Piercarlo Padoan né le fondazioni bancarie azioniste della Cassa, come si evince dal comunicato di ieri dell’Acri. L’associazione presieduta da Giuseppe Guzzetti soltanto a distanza di una decina di giorni dalle prime indiscrezioni (scritte da Repubblica) sul ribaltone in corso voluto da Palazzo Chigi ai vertici della Cassa ha deciso di chiedere lumi al governo su questa eventualità e sulle prospettive della società. E Padoan si è incaricato di comunicare a Gorno Tempini le decisioni dell’esecutivo chiedendo all’ad di dimettersi. Altrimenti il governo farà dimettere i cinque consiglieri del board (su nove totali) di nomina del Tesoro per far decadere l’intero consiglio.
Così, mentre l’ex Goldman Sachs Claudio Costamagna scalpita per sostituire Bassanini (e Fabio Gallia, ad di Bnl-Bnp Paribas, è dato al posto di Gorno Tempini), fra gli addetti ai lavori si elencano gli altri, possibili, motivi di distonia fra Palazzo e Chigi e gli attuali vertici della Cassa che si sono accumulati negli ultimi mesi. E di certo il dossier Telecom, e banda larga, è in cima. Visto che il consigliere di Renzi, Andrea Guerra, non ha apprezzato il forcing di Bassanini su Telecom. E d’altronde i dissidi recenti fra Bassanini e il gruppo presieduto da Giuseppe Recchi e guidato da Patuano sono addirittura sfociati in una segnalazione di Telecom alla Consob.
Eppure fino a poco tempo fa l’impostazione della Cdp e quella del governo coincidevano: assecondare gli sforzi della Cassa attraverso Metroweb per estendere la fibra ottica nelle maggiori città, con gli operatori che ci stanno (anche con Telecom, ma con il gruppo presieduto da Recchi le intese non sono state trovate, mentre con Vodafone e Wind sì al momento). Questa direzione di marcia ha fatto mugugnare l’ex monopolista, che teme una progressiva rottamazione di fatto della rete fissa in rame, con ricadute negative a livello patrimoniale.
C’è poi il dossier Sace, O Export Banca. Il governo in un primo momento aveva affidato alla società statale Sace (controllata da Cdp) attiva nel garantire le esportazioni delle imprese italiane il progetto di una banca dell’export: insomma non solo assicurare gli imprenditori italiani che esportano ma anche finanziarli come una vera e propria banca. Ma il progetto, da tempo in cantiere nella controllante Cassa che per questo non festeggiò per la norma contenuta nel decreto Investment Compact, fu criticato da Bassanini in un’audizione parlamentare. Il progetto Export Banca è stato poi riportato nella Cdp per l’attivismo dei vertici della stessa Cassa, come hanno raccontato le cronache parlamentari. Evidentemente lo stallo del progetto non è stato troppo apprezzato alla presidenza del Consiglio, secondo alcune ricostruzioni. Eppure la questione è dibattuta, oltre che foriera di effetti controversi su governance e attività della stessa Cassa. Infatti la trasformazione in banca della società di assicurazione dei crediti all’export – così come il progetto Export Banca per Cdp – comporterebbe per la Cassa l’ingresso sotto la vigilanza della Banca d’Italia o della Bce. Quindi con regole più stringenti dal punto di vista patrimoniale e con una conseguenza paradossale di frenare l’operatività della società del Tesoro, secondo alcuni addetti ai lavori.
Infine, ma non per ultimo, c’è il caso dell’Ilva. Con i vertici della Cdp atarassici su intervento, visto che lo statuto della Cassa non consente di entrare in aziende con i conti in rosso, e il governo – a partire dal consigliere renziano per le politiche industriali, Guerra – favorevole a un maggior interventismo della Cassa, come scritto di recente sia dal Corsera che dall’editorialista di Mf, Angelo De Mattia.