Consentitemi di ringraziare innanzitutto il Ministero degli Affari Esteri nelle persone del Ministro Gentiloni e del Segretario generale della Farnesina, l’Ambasciatore Valensise, non solo per il Patrocinio di questo evento, ma anche per aver concesso l’utilizzo della prestigiosa sede di Villa Madama.
Ringrazio, altresì, il Parlamento Europeo e la Presidenza del Consiglio dei Ministri per aver anche loro patrocinato questa nostra giornata.
Un caloroso ringraziamento va anche agli illustri professori ed agli autorevoli testimoni che, animando le sessioni storico-scientifiche di questo convegno, ci hanno consentito di approfondire e rammentare una pagina importante della nostra politica estera, restituendo al contempo nella giusta prospettiva il ruolo e la figura di un Presidente del Consiglio che sempre agì per il bene degli italiani, che più volte difese la sovranità nazionale, che portò l’Italia tra i grandi della terra e che immaginava un Paese forte, autorevole e protagonista della scena internazionale e dell’Europa che si andava costruendo.
La Fondazione Craxi non è quindi solo un istituto storico, è un pensatoio, un consesso di uomini liberi che, forti di una visione politica di grande attualità, amano ragionare sul futuro.
Sono questi i propositi di questa tavola rotonda che ha inteso porre al centro della discussione una domanda irrisolta che più di ogni altra impatta sul nostro futuro.
Non è quindi solo per celebrare un anniversario che ricordiamo il Consiglio europeo di Milano del giugno 1985, di cui in questi giorni ricorrono i trent’anni, quanto perché esso rappresenta il punto di partenza, la pietra miliare del lungo e tortuoso cammino d’integrazione europea.
Fu, infatti, proprio in quell’occasione, che ebbe origine l’Europa così come oggi la conosciamo; uno spazio senza frontiere interne nel quale vennero assicurate quattro libertà fondamentali: la libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali.
L’Atto unico europeo, non nacque però in un contesto privo di resistenze, ma fu il risultato di un lungo braccio di ferro, frutto delle convinzioni profonde dell’allora Primo Ministro Italiano, nonché Presidente di turno dell’Ue, Bettino Craxi, con l’Inghilterra di Lady Thatcher.
Tutti sappiamo come andò a finire; Craxi vinse la battaglia per il voto a maggioranza, ma l’Atto Unico europeo, che avrebbe dato contenuto a questa sua vittoria, si tradusse, di fatto, in un compromesso “al ribasso”.
Non mi dilungherò pertanto nella ricostruzione storica di quei fatti – compito già egregiamente svolto da illustri accademici – ma tenterò brevemente di riflettere, così come ci siamo preposti di fare in questa sessione, sulle intuizioni fondamentali di quel percorso ed il loro impatto con la dura realtà del nostro tempo.
Per fare ciò, è però necessario ricordare alcune conquiste fondamentali, oggi messe in discussione, che il varo dell’Atto unico comportò.
Dalla modifica delle procedure decisionali in seno al Consiglio, ai poteri della Commissione e del Parlamento europeo, all’estensione delle competenze della Comunità fino all’introduzione di disposizioni per la cooperazione nella politica estera, fu quella una stagione intensa e di grandi innovazioni.
Queste conquiste, quel cammino, frutto di un grande pensiero, di una grande intuizione, sono state l’elemento mediante il quale una nuova generazione ha potuto vivere, conoscere e sognare l’Europa come un’area di diritti e di libertà garantite e tutelate, ed ha assicurato pace, progresso, benessere e difese sociali ai suoi cittadini.
Detto ciò, dobbiamo anche prendere atto e denunciare con forza che nell’ultimo quindicennio, a causa della più grave crisi economica-sociale dal primo dopoguerra ed ad un vuoto ideale e progettuale, quel cammino di sviluppo e di speranza è deviato rispetto allo spirito originario che animò gli albori della costruzione comunitaria.
Il grande sogno europeo, cui la nostra generazione era chiamata a dare corpo e sostanza contando su un lascito ideale e materiale assai robusto e radicato, si è così incagliato nei meandri dei piccoli interessi e nelle dispute di famiglia.
I Paesi fondatori dell’Ue, hanno sempre risolto e programmato sulla soglia della cooperazione politica, preferendo il proprio ruolo di grandi stati-nazione nel concerto internazionale, piuttosto che quello di un complesso di Stati, quelli raccolti nell’Unione europea.
La cooperazione politica si è quindi scontrata con molte, troppe difficoltà, e non è mai riuscita ad emergere con forza, rimanendo così una cooperazione episodica.
In sostanza, l’Europa, non si è affermata nella sua identità politica come fattore di valore mondiale, capace di intervenire nelle situazioni delicate con una voce autorevole, tempestiva, risolutiva ed unita e ciò ha minato alla base la sua forza, la sua capacità d’incidere e la sua stessa credibilità.
La vicenda Libica, dall’origine della crisi nel 2011 sino ai giorni nostri, è un chiaro esempio di come la politica estera e di difesa, che dovrebbero essere dei cardini fondanti della politica comunitaria, rispondano ancora a logiche strettamente nazionali.
E’ quindi mancata la volontà, è mancata la convinzione dell’utilità di fare delle politiche comuni ed una comune politica europea, che non vuol dire cancellare identità, tradizioni ed interessi nazionali, ma creare un’identità ed un interesse europeo che le comprenda e li superi.
In queste mancanze sono evidenti i segni degli egoismi diffusi, la cecità culturali ed i ridicoli presupposti di autosufficienza di taluni Stati.
Eppure, nella realtà che abbiamo davanti agli occhi, una realtà complessa che cambia di continuo, questa necessità di Europa – ma non certo di questa Europa – è sempre più impellente.
Ogni giorno i problemi più diversi, sia che si parli di economia e di industria, di cultura e di scienza, di rapporti sociali come l’immigrazione, ci indicano la necessità di una dimensione sovranazionale europea, dell’esistenza di una interdipendenza che lasciata così com’è oggi al caso può provocare guasti gravi, mentre invece, governata e diretta unitariamente, potrebbe produrre benefici e nuove opportunità, quindi più progresso, più benessere, più sicurezza e civiltà.
La crisi economica mondiale ha contribuito a mutare radicalmente lo scenario geopolitico mettendo in discussione gli assetti del passato. L’Europa deve ridefinirsi nel nuovo contesto mondiale.
Infatti, proprio la portata della crisi, che da globale è diventava via via sempre più europea e mediterranea, ha reso sempre più impellente questa necessità.
Il Vecchio continente, al netto dei recenti dati macroeconomici, troppo marginali per segnare una duratura inversione di tendenza e proclamare la fine dell’emergenza, si è avvitato in un catastrofica spirale di depressione, mentre, specie dall’America, assistiamo ad un continuo susseguirsi di segnali positivi che segnano uno spartiacque con i periodi più bui.
Le ragioni di questa diversificazione sono presto dette. Dietro la ripresa di Paesi come gli USA, la Cina, il Giappone ed il boom dei Paesi dell’Estremo Oriente come Corea del Sud, Indonesia e Taiwan, c’è un’economia reale che ha ripreso a correre, stimolata da investimenti pubblici – cosa ben diversa dal fantomatico piano Junker – e da tempestive politiche monetarie coordinate e predisposte innanzitutto da istituzioni politiche legittimate.
Sono tutti ingredienti di una ricetta che per miopia ed egoismi nazionali l’Europa, bloccata da rigidi parametri, inadeguati ad affrontare la emergenze di ieri e di oggi, non ha dapprima voluto utilizzare ed ha poi adoperato con colpevole ritardo, mal interpretandoli nel concreto.
Ciò che oggi ancora scontiamo è stata non solo l’errata lettura della crisi, ma una ricetta sbagliata all’insegna di un’austerity che ha accresciuto le difficoltà di molti Paesi europei, specie Mediterranei, e che mette in pregiudicato la tenuta dell’Unione e della moneta unica, come testimonia la vicenda greca.
Era, infatti, del tutto naturale che le restrizioni tipiche delle politiche d’austerity, quando combinate ad una frangente di depressione prima, e stagnazione poi dell’economia reale, abbiano avuto un effetto deleterio sul reddito, provocando per tutta risposta una diminuzione delle entrate fiscali e l’aumento della spesa sociale.
Nel quadro complessivo dei fenomeni in atto all’interno dell’Ue, l’aspetto economico si è poi intrecciato, com’era inevitabile che fosse, con gli assetti decisionali dei Paesi membri e con problematiche di ordine sociale.
Nello specifico, la devoluzione volontaria di elementi basilari della sovranità nazionale alle istituzioni europee, ha comportato, nel corso del tempo, una compressione della libertà decisionale dei governi e dei parlamenti nazionali, pur senza che si creassero organismi effettivamente democratici e rappresentativi degli interessi generali.
E’ questo un vulnus di non poco conto da cui sono scaturite e continuano a scaturire inquietanti storture nella vita democratica e civile dei Paesi membri.
Il lento processo di cessione di sovranità ha poi generato una sorta di “costituzione economica e finanziaria” di tipo europeo (d’ispirazione tedesca per moneta e finanza pubblica e britannica per regolazione dei mercati) che da Maastricht, fino all’adozione del patto di stabilità, culminato con l’adozione del fiscal compact, ha prodotto dei vincoli stringenti, dei cappi al collo, che per essere contestati, com’è necessario che sia nell’interesse europeo, richiedono uno sforzo non indifferente in termini di forza e di progettualità politica.
Per invertire la rotta e mettere in atto nuove e funzionali ricette economiche, è quindi necessario modificare gli assetti costituiti e norme che, nel corso del tempo, si sono trasformate da regole in dogmi indiscutibili.
Oggi, dopo oltre un ventennio da Maastricht ed a quasi quindici anni dall’entrata in vigore della moneta unica europea, è impensabile non immaginare una revisione strutturale dei trattati costitutivi, le cui norme sono un ostacolo alla ripresa ed alla crescita dell’intera area europea.
I tratti, vanno dunque cambiati, senza se e senza ma. Altrimenti, questa Europa, come ebbe a dire profeticamente Bettino Craxi in tempi non sospetti, sarà per l’Italia “nella migliore delle ipotesi un limbo, nella peggiore un inferno”.
Quanto alle questioni sociali, negli anni di espansione e di sviluppo economico, la comunità europea ha poi marcato un considerevole ritardo nell’affrontare i temi più urgenti, più pressanti, più spinosi e perciò più dolorosi.
Siamo di fronte ad un’Europa che da un lato mostra i tratti di una società ancora opulenta e dell’altro si presenta povera, con nuove e vecchie emarginazioni, che riguardano più da vicino i giovani e le donne, con sacche crescenti di miseria anche nelle nazioni più ricche e con regioni più deboli ed attardate nello sviluppo – comprese le nostre realtà meridionali – dove si concentra un forte degrado ed un forte disaggio sociale.
C’è dunque la necessità di affermare una nuova dimensione politica tesa ad un riequilibrio sociale e regionale.
L’uscita dalla crisi e la ripresa della produttività e la diminuzione della disoccupazione sono i nodi da dipanare al più presto che l’Europa non può oltremodo eludere attardandosi in dichiarazioni che non si traducono in realtà.
Occorre, pertanto, oggi più di ieri, chiederci quale Europa vogliamo, se una semplice area di libero scambio, affidata un po’ al caso, guidata da interessi bancari e finanziari, affidata alla legge del più forte, la legge della giungla;
oppure, una vera unione economica e politica, una realtà integrata e coerente in cui gli stati membri contribuiscono ciascuno con le sue capacità e con le proprie energie alla creazione di un patrimonio comune da sviluppare insieme nell’interesse di tutti.
Più che da me, mi auguro, che alcune risposte, alcune riflessioni e proposte, arrivino da questa autorevole tavola rotonda e dai suoi illustri partecipanti che ringrazio per aver accettato il nostro invito.
Io credo, che di fronte alle crescenti spinte alla disgregazione, che sono spinte populiste, egoiste, occorrono delle risposte concrete e ragionate.
Non servono generiche denunce e messe al bando, ma serve opporre alle diffuse grida spagnolesche, idee, valori e progetti spiegando altresì con forza che i singoli Stati europei non avranno alcun avvenire al di fuori della solidarietà europea.
Lo dico, perché c’è oggi sul terreno della discussione politica il tema della redistribuzione delle risorse e degli aiuti finanziari, che non può non essere ispirata a criteri di solidarietà. Rischia, invece, che passi, e non deve passare, l’idea di un’Europa matrigna con conseguenze imprevedibili.
Siamo oggi chiamati ad affrontare sfide difficili, ad un impegno crescente per costruire, preservare e rafforzare il nostro ruolo di europei nel mondo. Per questo, l’Ue, deve dotarsi di strumenti adeguati, d’istituzioni efficienti, funzionali e, soprattutto, rappresentative e legittimate, che sappiano esprimere la più vasta partecipazione delle forze vive della società.
Bisogna perciò saper guardare avanti, progettare il futuro e non essere in balia degli eventi e per fare ciò serve ripristinare quel “primato della politica” che quando viene meno crea storture e deviazioni democratiche, ingiustizie e disuguaglianza.
Una nuova progettualità è quindi il presupposto necessario per dare all’Europa la forza indispensabile per assolvere alla sua funzione di mediazione rispetto alle grandi aree di tensione che si sono riaccese tra Est e Ovest ed a Sud.
Occorre, pertanto, rafforzare la dimensione Mediterranea, una vocazione naturale che con l’allargamento ad Est l’Europa ha trascurato in preda ad una sorta di rattrappimento baltico, affrontando al contempo le grandi disuguaglianze che ancora dividono il Nord dal Sud del mondo e che rappresentano la grande questione sociale del nostro tempo.
Solo un’Europa forte ed autorevole può avere la capacità e la forza sufficiente per porsi come grande interlocutore e mediatore dei conflitti che tengono con il fiato sospeso i popoli e condannano molti di loro al sottosviluppo, al miseria, alla fame, cause prime del terrorismo e dell’immigrazione, un fenomeno complesso, epocale e non transitorio, che sarebbe illusorio pensare di fermare semplicemente chiudendo le frontiere.
Un fenomeno, questo dell’immigrazione, che rischia di travolgerci a meno che, l’Unione, non si risolverà ad esercitare un ruolo attivo anche verso il resto del mondo e del mondo più povero.
L’idea Europa, dell’Europa unita, della “giovane Europa” nasceva quando ancora sembrava impossibile concepirla, quando ancora fervevano lotte e guerre sanguinose per la formazione degli stati indipendenti.
Dobbiamo far rivivere quelle utopie coltivate dai grandi spiriti del passato, con lo stesso animo, la stessa idealità di pace, di giustizia, di fraternità.
on. Stefania Craxi
Presidente Fondazione Bettino Craxi
già sottosegretario agli Affari esteri