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Default, Italia e Grecia. Report Fmi

Finalmente, con uno studio peraltro molto scarno e poco innovativo nelle conclusioni cui perviene, anche il Fmi internazionale comincia a chiedersi quando cominceranno a ridursi i debiti pubblici dopo la crisi finanziaria del 2008, e soprattutto quali sono le conseguenza che ne derivano per gli Stati che ne hanno “ereditato” un livello estremamente elevato. Nelle appena 27 pagine di cui si compone, il dato che ha suscitato maggior attenzione è contenuto in una tabella ripresa da Moody’s Analytics, frutto di una elaborazione che considera oltre 50 variabili. Si espone per ciascu Paese il margine di manovra disponibile, in termini di politica di bilancio espansiva, rispetto al livello limite del rapporto debito/pil che determinerebbe il default del suo debito sovrano. In pratica, di quanto è possibile aumentare il deficit per sostenere la ripresa economica con investimenti pubblici ovvero riducendo le imposte. L’Italia è, dopo il Giappone, nel quartetto dei Paesi con margine zero, inclusi nella zona rossa, quella in cui si rischia il default senza interventi correttivi sul debito. Dopo di noi, Grecia e Cipro. Le conclusioni sono banali: il debito pubblico ereditato rappresenta un peso mortale per l’economia, dacchè riduce gli investimenti potenziali e le prospettive di crescita.

Bisogna ricordare che cosa è successo in Italia: il rapporto debito/pil è passato dal 103,1% del 2007 al al 120% del 2011, fino al 132,1% del 2014, vanificando oltre un ventennio di sacrifici compiuti accumulando saldi primari a partire dal 1994, quando era stato toccato il picco del 121,2%. In particolare, tra il 2007 ed il 2011, il rapporto debito/pil è cresciuto di 17 punti, in misura analoga a quanto era accaduto in Germania (+16), ma molto meno della Francia (+21,6%) e della Gran Bretagna (+41,1%) e ben al di sotto della media dei Paesi dell’Eurozona (+20,9%). Gli errori di politica economica compiuti a partire dal 2011, anno in cui comunque il Pil italiano era già con il segno positivo(+0,4%), sono stati enormi, ed hanno pesato più della crisi finanziaria, soprattutto in termini di caduta dell’occupazione e di sofferenze bancarie.

I danni più rilevanti sono derivati dalle misure di risanamento strutturale, quelle che avrebbero dovuto ridurre il debito ed invece lo hanno fatto aumentare a dismisura per via del calo del Pil, della produzione industriale, dell’attività nel settore edilizio e dell’abbattimento dei valori immobiliari. Non si è trattato di semplici errori di previsione, ma di scelte radicalmente sbagliate: si è cercato il pareggio strutturale del bilancio pubblico aumentando le imposte correnti, incidendo sugli investimenti finanziari e sul patrimonio immobiliare che è di per sé infruttifero, come la casa di abitazione, e su cui magari ancora si paga un mutuo. La vera anomalia italiana è rappresentata dall’enorme onere per interessi che andava invece assorbito, come si era fatto nei venti anni precedenti, con misure una tantum annuali: la politica tanto biasimata dei condoni e poi quella degli scudi fiscali non incideva sui redditi correnti disponibili delle famiglie.

Come nelle diete, il dimagrimento del debito si vede sempre dopo un certo tempo. Ed infatti, il Def per il 2012 approvato nell’aprile di quell’anno dal Governo Monti, dopo aver già varato il Salva Italia nel dicembre precedente, stimava per il 2015 un rapporto debito pubblico/pil pari al 114,4%, mentre secondo il Def per il 2015 quest’anno dovremmo raggiungere il 132,5%. Un nuovo massimo stotico. Tutti i governi hanno continuato a prevedere una riduzione prospettica del rapporto debito/pil, affidata per un verso ad una crescita sostenuta del denominatore, e per l’altro ad un sostanzioso contributo dell’avanzo primario.

Il Def del 2012, approvato dal Governo Monti, prevedeva per il 2014 un rapporto avanzo primario/pil pari al +5,5% e per quest’anno il +5,7%: in realtà il rapporto è andato sempre diminuendo, passando dal +2,2% del 2012 all’1,6% del 2014. Ma crescerà di nuovo, visto che l’ultimo Def prevede che nel 2018 l’Italia avrà finalmente il suo primo bilancio attivo, quando le spese per interessi saranno pari a 68 miliardi di euro mentre il saldo primario sarà di ben 77 miliardi di euro, passando al 4,3% del Pil e quindi triplicandosi rispetto al 2014. Rispetto ai 28,2 miliardi di avanzo primario del 2015, l’anno prossimo occorrerà recuperare altri 19 miliardi, poi altrettanti nel 2017 ed ancora 12 miliardi nel 2018. A settembre si faranno i conti, quelli veri.

L’avanzo dei conti con l’estero, arrivato al 3% del Pil, non contribuisce più alla crescita, mentre i capitali stranieri subentrano nella proprietà delle imprese, senza allargare la base produttiva. Intanto, gli italiani continuano ad accumulare risparmi, ma questi non affluiscono più al sistema bancario, e per questa via all’economia reale. Invece del risanamento, abbiamo le sofferenze bancarie da una parte ed il debito pubblico dall’altra che non sono mai stati così pericolosamente incombenti. Sono l’eredità della politica di rigore distruttivo. Meglio dare la colpa alla crisi finanziaria, come fa lo studio del FMI: le responsabilità politiche non hanno mai né un nome, né un volto


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