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Tutti gli errori di Merkel e Draghi che condannano l’Europa alla disoccupazione

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori e dell’autore, pubblichiamo il commento dell’economista Paolo Savona uscito sui quotidiani del gruppo Class diretti da Pierluigi Magnaschi

Il momento più elevato della civiltà umana è stato raggiunto quando – sotto la spinta delle analisi dei grandi filosofi e della rivolta popolare – è stato riconosciuto che la sovranità appartiene al popolo, ossia a ciascun individuo. La disoccupazione viola questo sacrosanto principio perché discrimina tra cittadini nel godimento del diritto ad avere un lavoro; in Italia questo diritto è scritto a chiare lettere nell’articolo 1 della Costituzione. L’idea che alcuni individui possano essere involontariamente disoccupati senza che vi sia un’adeguata politica per debellare questa piaga sociale è una grave omissione dei gruppi dirigenti, direi anzi un vero e proprio reato. Sostenere, come si va facendo, che la disoccupazione è la punizione di un popolo per aver vissuto o perché vuole vivere al di sopra delle proprie risorse, invece di ammettere che sono le politiche a essere sbagliate, non è solo un’eresia democratica, ma anche un modo per far pagare il costo degli aggiustamenti a una minoranza di poveri cristi. Riconoscere sussidi alla disoccupazione invece di garantire un posto di lavoro è un’offesa alla dignità dell’uomo; i sussidi andrebbero dati solo a chi fisicamente è impossibilitato a lavorare.

Se i capi di Stato e di governo europei non decideranno che il loro principale obiettivo è riassorbire la disoccupazione, prendendo adeguate decisioni comuni, non adempiranno al compito cui sono stati delegati e confermerebbero che l’Ue è un assetto istituzionale che non merita rispetto. Non si può accettare che più di un cittadino europeo su dieci, per l’esattezza l’11,1%, sia disoccupato, con una distribuzione alterata all’interno dell’area euro, che va dal 5,7% dell’Austria al 22,7% della Spagna (e al 25,6% della Grecia), venga discriminato nel godimento del suo diritto alla giustizia sociale previsto dall’articolo 2 del Trattato di Lisbona, che così si esprime: l’Unione poggia «su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale… Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico… combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore. Essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri».

Abbiamo firmato un impegno o un mare di chiacchiere? La disoccupazione attuale ha quattro componenti che, secondo le regole della politica economica, richiedono l’attivazione di almeno quattro appositi strumenti che qui ricordiamo. Esiste una disoccupazione ciclica dovuta all’assenza di una gestione corretta della domanda aggregata, che si combatte aumentando la spesa pubblica o riducendo le tasse, soprattutto se esiste risparmio in eccesso, che nell’area euro è circa 300 miliardi (di cui 270 della sola Germania e paradossalmente 43 dell’Italia). Ne esiste una seconda legata alle diversità marcate del costo del lavoro nascenti dall’assenza o quasi di rete sociale e di protezione ambientale dei Paesi emergenti, che, generando convenienza a importare, spiazzano le produzioni locali a basso valore aggiunto e ad alta incidenza dei salari; questa si combatte, da un lato, inducendo i Paesi che muovono concorrenza in social dumping ad avere un’adeguata rete sociale e protezione ambientale invece di costringere chi già l’ha a rinunciarvi; dall’altro, spostando le risorse verso attività a elevato valore aggiunto e bassa incidenza salariale, attivando il sostegno scientifico previsto dal citato articolo 2 del Trattato di Lisbona e incentivi fiscali alle innovazioni tecnologiche. Ne esiste inoltre una terza nascente dalla delocalizzazione degli investimenti, che, esportando le esportazioni di un paese per produrle all’estero, disloca anche la domanda di forza lavoro; questa disoccupazione si combatte parificando i trattamenti burocratici e la tassazione a quelli vigenti nei Paesi concorrenti. Ne esiste infine un’ultima, la più grave, dovuta allo sviluppo dei robot e della cibernetica, che non richiedono più lavoro umano; questa sollecita una diversa organizzazione sociale che garantisca a tutti un salario, una pensione o un sussidio se si impegnano a prestare un servizio tra i tanti necessari.

Questo è il problema di cui i capi di Stato europei devono discutere, lasciando ai tecnici la soluzione degli altri pur importanti problemi sul tappeto. È inutile definire una politica comune rispetto all’emigrazione, all’Ucraina, all’Isis e al Nord Africa e un più stretto coordinamento fiscale, se l’Ue non ha futuro a causa della disoccupazione; ciascuno Stato provvederà da sé a trovare una soluzione, come va facendo. Invece di prendere di petto queste quattro disoccupazioni, la Ue e i Paesi che al loro interno registrano condizioni più gravi avanzano la tesi che si debba adeguare l’operatività del mercato del lavoro alle condizioni esistenti altrove; ossia si esce dalla crisi dell’occupazione abbassando il nostro livello di civiltà perché «si sono incrinati gli standard di vita che avevamo»; dobbiamo cioè accettare di vivere più modestamente. È il de profundis della cultura dello sviluppo che ha permesso all’area occidentale di sconfiggere quella sovietica e reso un Paese come l’Italia la quinta potenza mondiale. Mi spiace che la tesi sia stata enunciata dal governatore di Bankitalia, ma è noto che è condivisa dai gruppi dirigenti italiani ed europei e, ahimè, da molti economisti protoneoclassici ed europeisti confusionari. Queste politiche generano un circolo vizioso dove l’accettazione del sacrificio degli standard di vita perpetua e accentua la crisi. Se si riducono i salari si comprime la domanda e si aumentano i profitti senza imprimere un impulso agli investimenti e usando le capacità imprenditoriali all’estero.

Si riduce così la base imponibile e lo Stato incassa meno tasse, facendo entrare in crisi il deficit di bilancio pubblico e il sistema pensionistico. Se si aumenta la pressione fiscale per ovviare al deficit pubblico e pensionistico così creato, il moto del circolo vizioso si accentua. Se per reagire alla crisi si annullano i tassi d’interesse, come attualmente in atto, il risparmio perde ogni remunerazione e crea minor reddito da spendere; la maggiore offerta di moneta finisce nelle mani della speculazione, che guadagna non usando lavoro, ma computer, e reinveste gli utili nel sistema finanziario; entrano in crisi i fondi assicurativi e pensionistici privati aumentando i problemi per tutti. Si può continuare, ma credo che basti per farsi un’idea di ciò che sta accadendo all’Italia in Europa a causa di una dirigenza politica non all’altezza della situazione. Si apre così la strada alle proteste e alla confusione politica che, attraverso gli spread sul debito pubblico e l’aumento del rischio in generale, rafforzano ulteriormente il moto del circolo vizioso. Solo così l’euro sarà irreversibile, come Draghi comincia a comprendere che debba essere con adeguati comportamenti, mentre finora ha sostenuto che l’euro già lo fosse per sua stessa natura.


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