Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori, pubblichiamo l’analisi di Alberto Pasolini Zanelli uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.
La campagna elettorale in Turchia si è chiusa con un voto chiaro e con prospettive nebulose. Non è neppure escluso che entro pochi giorni, se non poche ore, i cittadini siano richiamati alle urne per un bis. Che sarebbe però una prova in più delle dimensioni della sconfitta di Recep Tayyip Erdogan.
Il capo dello Stato ha mancato infatti tutti i suoi obiettivi, uno dopo l’altro. Voleva una maggioranza a prova di bomba che gli consentisse di trasformare la Turchia in Repubblica presidenziale e non ce l’ha fatta. Si sarebbe forse dovuto accontentare (sulla base dei sondaggi uniformemente negativi) di mantenere la maggioranza assoluta in parlamento e invece l’ha persa. Adesso gli rimane la scelta, obbligata, tra cercarsi un partner per un governo di coalizione fra i tre partiti di opposizione, che hanno ciascuno i suoi buoni motivi prevalenti per dirgli di no. Oppure ricorrere a un bis, un salto nel buio alle urne in una congiuntura politica e psicologica pesantemente negativa.
Egli ha giocato d’azzardo e francamente non è del tutto chiaro perché lo abbia fatto: aveva, e ha, in mano la presidenza della Repubblica e una maggioranza alla camera. Da quella piattaforma ha cercato di compiere il «Grande Balzo» per trasformare le istituzioni a suo piacimento e, fra l’altro, battere il record assoluto di durata detenuto da Kemal Ataturk, tecnicamente il suo modello, in realtà l’incarnazione dei principi opposti ai suoi.
Per arrivarci, Erdogan ha condotto una campagna elettorale che si può definire isterica, passando da una difesa rivendicativa dei risultati dei suoi anni di potere (non uniformemente negativa come dimostrato da precedenti consultazioni influenzate dal buon andamento dell’economia) a un attacco senza frontiere, accusando i partiti concorrenti di qualcosa di molto simile all’«alto tradimento» e invocando l’ergastolo per il direttore di un giornale reo di aver pubblicato documenti fotografici che dimostrano che la Turchia continua a fornire armi ai fondamentalisti islamici nella guerra civile che infuria da quattro anni a Damasco e che ha per obiettivo l’abbattimento del regime nazionalista di Assad. Una insistenza che va abolendo le frontiere fra le varie fazioni armate e portando il governo di Ankara ad allearsi in pratica, non solo con i gruppuscoli fedeli ad Al Qaida e alla memoria di Bin Laden, ma anche con i tagliagole dell’Isis.
Una strategia che vede comunque un Paese semieuropeo come la Turchia coinvolto in guerre religiose interislamiche e dalla parte degli estremisti. Una scelta di campo inizialmente condotta sott’acqua e quindi abbastanza accettata, ma che è diventata via via evidente e ha finito, fra l’altro, per resuscitare, o almeno rendere più attuale, un brutto fantasma che, proprio di questi giorni, compie cent’anni: l’olocausto degli armeni nel 1915, la pagina più sanguinosa del libro di sangue che è stata la prima guerra mondiale.
Il posto degli armeni come etnia perseguitata l’hanno preso da tempo i curdi, che da decenni conducono azioni di guerriglia contro il regime, ma la cui leadership ha imboccato, di recente, la strada dell’opposizione democratica. Con ambizioni parlamentari, frustrate finora dalla legge elettorale che impone un minimo del 10% dei voti perché un partito sia rappresentato in parlamento. Stavolta i curdi si sono trovati degli alleati fra le altre minoranze (a cominciare dalle femministe) e sono balzati al 13%, sommandosi dunque, con 80 deputati, agli 82 dei nazionalisti e ai 133 dei repubblicani, per un totale 295 seggi all’opposizione contro i 255 del partito di Erdogan, che avrebbe dovuto conquistarne 330 per poter modificare la Costituzione come voluto dal presidente.
Adesso le ambizioni di Erdogan sono ridimensionate al bisogno di trovare un partner di coalizione per il suo partito. Una scelta non facile, anche perché nessuna delle forze di opposizione accetta una modifica costituzionale in senso presidenzialista. L’«uomo nuovo» della Turchia è un giovane, il quarantaduenne Selahattin Demirtas, che ha saputo unire in un partito chiamato «Pace e Democrazia» gran parte delle minoranze religiose, interne o esterne all’Islam con correnti innovative «laiche» come il movimento femminista e gli omosessuali. Coloro che chiedono una «nuova Turchia», che finirebbe per assomigliare un po’ di più all’Europa. Quella cui avevano cercato di accostarsi gli autori dell’ultimo golpe militare del 1980. Quello il cui il leader, Kenan Evren, fece seguire il suo appello alla nazione con una sinfonia di Beethoven.