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Tutte le guerre geopolitiche di Usa, Germania, Russia e Cina

Le elezioni presidenziali americane si avvicinano a veloci falcate, e nel frattempo si prepara il terreno di gioco. Ancora una volta, il globo sembra la scacchiera su cui si confrontano l’Aquila ed il Toro, le metafore del potere americano. In fondo, il candidato di ciascuno dei due schieramenti non sarà altro che l’interprete di interessi e filosofie del potere ben distinte ed alternative tra loro: i Repubblicani sono concentrati sul controllo territoriale, dove la sponda militare e quella petrolifera si spalleggiano vicendevolmente condividendo il medesimo obiettivo; i Democratici, invece, si focalizzano sul versante economico e la gestione dei flussi finanziari globali. Al solitario gendarme del mondo, che impersona la visione dei Repubblicani e l’unilateralismo politico e militare dell’unica super potenza globale, fa risconto una visione democratica in cui la globalizzazione economica ed ora quella finanziaria rappresentano un analogo strumento di dominio strategico.

Si rimescolano le carte: la crisi del debito greco scantona invariabilmente da una scadenza all’altra; le tensioni in Ucraina non si placano, ed anzi si preannunciano nuove sanzioni nei confronti della Russia; anche la Macedonia viene coinvolta da disordini provocati da minoranze, forse perché ha accettato di far passare sul suo territorio il Turkish Stream (il così ribattezzato South Stream); il conflitto in Siria si dipana senza storia, come nelle guerre di posizione dei primi del Novecento; la Gran Bretagna annuncia un referendum sulla permanenza nell’Unione europea; le migrazioni dall’Africa verso l’Europa proseguno inarrestabili. Sembrano le quinte di un palcoscenico: solo la visione d’insieme, da oltre Atlantico,  sembra fornire correlazioni plausibili.

Il recente G7, tenuto in Germania, ha indicato in modo plastico le nuove frontiere del mondo, con il Preambolo che inneggia ai “valori condivisi” dai partecipanti, e soprattutto la priorità dell’Amministrazione democratica statunitense: unire questo Occidente in una nuova globalizzazione che escluda per un verso la Russia e per l’altra la Cina. La prospettiva del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership)  renderebbe del tutto residuale la funzione regolatoria da parte della Unione europea, soprattutto in campo finanziario ed assicurativo. Se varrà il principo del mutuo riconoscimento e la libera operatività, senza limitazioni ed interferenze da parte degli Stati aderenti al Trattato, la normativa europea non potrà che divenire recessiva rispetto a quella statunitense.

In questi termini, è facile spiegare il nesso tra il disinteresse di Londra verso l’Unione e l’attrattività del TTIP: mentre non deve soggiacere a Bruxelles, le si aprono infiniti mondi. L’Unione politica europea, cui si devolverebbe la residua sovranità nazionale al fine di assicurare la effettiva adozione delle riforme strutturali, diverrebbe una sorta di organismo di vigilanza sui conti pubblici e sugli squilibri macroeconomici, come lo è stato finora il FMI a livello internazionale. Si ritorna al Comitato finanziario della Società delle Nazioni, dove al posto della Gran Bretagna si installa la Germania: prima si dovevano difendere gli investimenti in sterline, ora la stabilità dell’euro. L’area transatlantica, regolata dal TTIP, legherebbe definitivamente ed indissolubilmente l’Europa agli Usa, doppiando il quadro della alleanza Nato.

Dall’altra parte del globo si svilupperebbe l’area transpacifica, a sua volta regolata dal TPP (Trans Pacific Partnership), che legherebbe tutti i Paesi dell’area con l’esclusione della Cina. Si vellicano, chissà se inconsapevolmente, le storiche ambizioni delle potenze regionali. In Europa, la Germania ha sempre guardato verso Est: per attingere alle risorse agricole della Ucraina che sarebbero state indispensabili per vincere il Primo conflitto mondiale, ed a quelle petrolifere delle aree del Caspio nella Seconda guerra. Di converso, il Giappone non sarebbe certo contrariato da un ridimensionamento del potenziale geopolitico globale della Cina, magari ricordando ben altri e più favorevoli rapporti di forza. E’ una illusione per entrambi: Francoforte e Tokio sono piazze finanziarie destinate ad essere assorbite rispettivamente da Londra e New York, mentre le loro economie reali perderanno il supporto decisivo dei rispettivi sistemi bancari, che fin qui hanno funzionato come un inestricabile kombinat. La posta in gioco è la gestione degli attivi che Germania e Giappone hanno accumulato con gli avanzi commerciali strutturali: sarà un processo analogo alla debancarizzazione in corso del risparmio  italiano, che viene progressivamente gestito attraverso i Fondi, dall’estero e sull’estero.

In questo scenario, mentre la Cina contrappone la FTAAP (Free Trade Area of the Asia-Pacific) e la creazione di una Banca di sviluppo dei Brics, la Russia erode le posizioni occidentali nel Mediterraneo, sostenendo economicamente e militarmente l’Egitto, stipulando accordi con Cipro per la concessione di una base navale militare, offrendo alla Turchia l’approdo di quello che era il South Stream. Insieme, infine, Russia e Cina hanno svolto manovre miliatri navali congiunte nel Mediterraneo: non era mai accaduto prima d’ora. La destabilizzazione di tanti scacchieri offre occasioni per incursioni inattese.

Allo stesso  modo, la questione della Ucraina, ed in modo ancora appena percettibile della Macedonia, si leggono alla luce del contenimento della Russia, in una ottica che potrebbe essere guidata dall’obiettivo di mettere in difficoltà i futuri candidati repubblicani alle presidenziali. L’amministrazione democratica in carica è stata sovente accusata di aver dilapidato, con il ritiro delle truppe da Afganistan ed Iraq, i tanti anni di impegno militare ed i molti miliardi di dollari profusi dalle Amministrazioni Bush. Ma adesso tiene il punto fermo, soprattutto verso la Russia: sarà un bel problema conquistare il consenso dei cittadini statunitensi rilanciando ancora sul riarmo e sulla necessità di tornare ad intervenire militarmente all’estero. Una politica di confrontation nei confronti della Russia richiederebbe impegni finanziari assai invisi agli elettori, mentre ogni crisi locale si lega ad un’altra: intervenire per la soluzione di un conflitto, dalla Siria alla Libia, avrebbe ripercussioni anche lontane: l’Isi, con il suo modello di franchising territoriale, farebbe da detonatore per risonanza.

Chi avesse voluto rendere la pariglia ai Repubblicani, a tanti anni di distanza dal 2008, non avrebbe potuto escogitare di meglio: allora, erano loro ad essere ben consapevoli della difficoltà di far eleggere un loro candidato. La speculazione sui prezzi del petrolio ed il rialzo edi tassi di interesse crerono una miscela esplosiva per le famiglie americane: la crisi dei mutui sub-prime aveva bisogno solo di un innesco.

Il Presidente democratico ricevette così una eredità pesantissina da gestire, con un doppio fronte, interno ed esterno. A parti invertite, ora, la sfida per un Presidente repubblicano sarà davvero ardua: se l’economia americana non tollererebbe altri deficit di bilancio e neppure i cittadini accetterebbero altri aumenti di imposte; si dovrebbe riconquistare il controllo di interi scacchieri, dalla Libia all’Egitto, che erano stati acquisiti mentre ci si accingeva agli interventi in Afganistan ed Iraq. Territori, anche questi, ormai compromessi. Per i Republicani, è un tavolo di bridge: già nella campagna elettorale dovranno dichiarare il gioco e le prese.

I Greci, nel loro piccolo, stanno giocando a perfezione la partita sul debito pubblico insostenibile: applicano la lezione tedesca. La Germania è stata maestra nel non pagare i suoi debiti verso l’estero, sfruttando sempre la congiuntura politica internazionale a proprio favore. Non pagò che la prima rata delle riparazioni imposte con il Trattato di Versailles, facendosi per di più finanziare da Wall Street: una beffa. Gli Usa e la Gran Bretagna non potevano tollerare uno strapotere francese nel continente e la politica di appeasement di Chamberlaine verdo la Germania ne fu la riprova. Di più, c’era il pericolo di una estensione della rivoluzione comusta, dilagata in Russia: se la Germania ne fosse stata travolta, sarebbe stata la fine. Nel ’53, la Germania si fece abbonare ancora una volta una bella quota dei prestiti contratti tra il 1919 ed il 1939, senza che delle riparazioni residue della Prima Guerra Mondiale e dei danni causati con la Seconda Guerra si facesse alcun cenno: andava puntellata, dagli Usa, in funzione antisovietica. I Greci lo sanno: un loro default segnerebbe la fine della irreversibilità dell’euro e trasformerebbe l’intera impalcatuta messa in piedi dopo la crisi del 2008, dall’OMT all’ESM, in una tragica barzelletta. Non hanno fretta: sono i creditori, dal Fmi alla Bce, a dover fare concressioni continue, anche se impercettibili, se non vogliono perdere l’intera posta, per la verità già persa.

L’Italia, uscita assai malconcia dalla crisi del 2011, recita un ruolo marginale. Ha perduto il vantaggio strategico concesso ad ottobre 2013 al Governo Letta in occasione della visita Washington, quando fu palese l’appoggio dell’Amministrazione Obama ad una nostra iniziativa militare-umanitaria nel Mediterraneo, per evitare che divenisse un “Mare di morte” per via dei tanti migranti morti durante le traversate, ed in relazione all’obiettivo di nation building in Libia. Abbiamo subito ceduto alla tentazione di ottenere la solidarietà europea per condividere i costi e l’ospitalità dei richiedenti asilo, cancellando inopinatamente l’iniziativa Mare nostrum che era guidata dalla nostra Marina, senza ottenere alcun risultato tangibile. L’Unione europea si conferma del tutto inadeguata a gestire le crisi internazionali: quando si ricorre a Bruxelles si rinuncia all’esercizio delle proprie prerogative politiche senza poterle poi riprendere una volta che questo passo è stato compiuto.

Noi pensiamo che sia il pozzo di San Patrizio, per ricevere risorse ed aiuti, ma è solo il buco nero della sovranità nazionale. Prova ne sono le proposte avanzate di recente, in vista di un rafforzamento politico dell’Unione: è del tutto irrealistica l’idea di varare un sistema di diritti sociali come contenuto sostanziale della “cittadinanza europea”, per di più rafforzata dalla introduzione di un sistema di assicurazione contro la disoccuoazione al fine di attenuare le conseguenze della fluttuazione del ciclo economico nei Paesi che adottano le cosiddette riforme strutturali, Ipotizza la costituzione di un fondo finanziato almeno in parte dalla messa comune di risorse già destinati a queste finalità assistenziali, cui di volta in volta si attingerebbe secondo le necessità: su questo, la Germania della Cancelliera Angela Merkel ed il premier britannico David Cameron sono stati chiari, e non da ora. La risposta sarà: bene per i livelli di assistenza, ma ognuno paghi per sé.

In politica ciascuno bada cinicamente ai suoi interessi, difendendo i suoi cittadini, le sue imprese e la sua sfera di azione. Tutto il resto è poesia. Già, l’Italia, un popolo di poeti…

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