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Grecia, cosa non mi convince del referendum di Tsipras

Questo commento è stato pubblicato ieri su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

E così Alexis Tsipras, il primo ministro greco di lotta e di governo, il prossimo 5 luglio chiamerà il suo popolo sovrano alle urne per avere la risposta che lui stesso già conosce: “Ci hanno chiesto di accettare pesi insopportabili”. Dunque, non saranno più le istituzioni elette di Atene, ma il referendum della gente a decidere il prendere o lasciare proposto dall’Eurogruppo.

È una svolta drammatica prima di tutto per i greci, che sono corsi ai bancomat per ritirare i loro risparmi di lacrime e sangue. Ma è un pessimo esempio per la politica in quanto tale, persino per quella nuova e per molti europei speranzosa di Tsipras, che invece preferisce rifugiarsi nella piazza forse per mascherare la propria incapacità di negoziato duro, ragionevole ma leale.

Posto che in Europa non c’è soltanto la cattivissima Frau Merkel – peraltro meno cattiva di quanto appaia -, ma anche governi “amici” come quelli italiano e francese. E personalità aperte alla Mario Draghi. Tanti che si sono spesi fino all’ultimo per non abbandonare la Grecia, cioè la culla della civiltà europea, al suo solitario e fallimentare destino.

Invece, salvo sorprese e sempre che la mossa non rientri in un tentativo estremo di alzare la posta (ma nell’attesa del referendum Bruxelles ha già bloccato la proroga di aiuti richiesti da Tsipras), il “che fare” coi creditori sarà chiesto agli indebitati. Sarebbe come domandare agli italiani se concordano nel pagare la media più alta di tasse in Europa. Domanda che la nostra Costituzione rende impossibile, perché il referendum “non è ammesso”, appunto, per le leggi tributarie e di bilancio, oltre che per la ratifica dei trattati internazionali.

Per tutto ciò eleggiamo un Parlamento e un governo, che hanno il dovere della politica economica ed estera col sottinteso che li mandiamo a casa se governano male. Ma il precedente greco non è il referendum che la Gran Bretagna farà nel 2017 per chiedere ai suoi se restare o meno in Europa. Né il referendum con cui Francia e Olanda nel 2005 bocciarono la Costituzione europea: la voce del popolo per “indirizzare” una grande scelta politica.

Questa e ben diversa consultazione, della quale a pochi giorni dalla sua indizione non si conosce neppure il quesito, è solo la continuazione del populismo con altri mezzi: il pompiere che butta benzina sul fuoco. L’opposto di una politica magari anche radicale di un’istituzione che però si prende la responsabilità di una scelta, qualunque sia, e la spiega ai suoi cittadini.



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