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Così l’Ice vede l’Italia

Quanto è multinazionale l’Italia? Si sente dire spesso – e a ragione – che lo sia poco. Imprenditori troppo padroni e poco propensi a cedere quote di controllo e quindi ad aprirsi al mondo, scarsa propensione a crescere dimensionalmente attraverso acquisizioni: tutto questo impedisce alla nostra industria fatta di piccole e piccolissime imprese di decollare sul serio. Eppure qualcosa (non troppo) si muove.

Le nostre grandi imprese tengono bene all’estero, mentre “aumenta la presenza italiana in Nord America e cresce il coinvolgimento delle nostre pmi nei processi di internazionalizzazione produttiva”. Questo è quanto emerge dal rapporto “Italia multinazionale 2014” elaborato dall’Istituto per il Commercio estero (Ice), l’agenzia statale per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane.

LA RICERCA DELL’ICE
La ricerca, che analizza le tendenze degli investimenti esteri diretti nel mondo, si avvale della banca dati Reprint che censisce sia le imprese multinazionali a base italiana, attive con proprie consociate e joint venture all’estero, sia le imprese italiane partecipate da multinazionali a base estera. Nell’edizione 2014 del rapporto assume particolare rilievo la questione degli “effetti della crisi, con approfondimenti riguardanti i nuovi progetti internazionali di investimento, volti alla creazione, all’ampliamento e/o alla co-localizzazione di attività industriali e terziarie”. La conclusione a cui giunge l’Ice è che dopo il blocco pressoché totale negli anni 2009-2012, l’Italia ha visto una ripresa dei flussi di investimenti esteri sia in entrata che in uscita a partire dal 2013, ma ciò non le ha consentito di superare il tradizionale ritardo rispetto alla media europea.

IMPRENDITORI ITALIANI NEL MONDO
“Le analisi svolte – spiegano dall’Ice – evidenziano come il modello di crescita delle imprese italiane all’estero mantenga una stretta coerenza con i tratti tipici del made in Italy e della struttura industriale del Paese: un intenso impegno a rafforzare la presenza commerciale soprattutto nei paesi ricchi, cui si accompagnano processi di delocalizzazione per lo più verso aree “vicine” in senso geopolitico, culturale e logistico. Tra i segnali positivi c’è l’aumento della presenza italiana in Nord America e il crescente coinvolgimento delle nostre pmi nei processi di internazionalizzazione produttiva, cui si accompagna una buona tenuta della presenza all’estero delle grandi imprese. Sullo sfondo, tuttavia, il persistere di un gap di globalità, soprattutto in riferimento all’area del Pacifico, nuovo epicentro dell’economia mondiale, e la modesta propensione multinazionale di molti settori terziari, da un lato, e delle imprese del Mezzogiorno, dall’altro”.

CHI ESPORTA IMPRESA
In generale, allargando lo sguardo all’Europa, il rapporto rileva che “i maggiori protagonisti sia nell’internazionalizzazione attiva delle proprie imprese, sia nella capacità di attrarre investimenti dall’estero, sono in Europa quelli caratterizzati da maggiore solidità economico-istituzionale (Germania, Regno Unito, Paesi Bassi), ma anche quelli come la Spagna che sono stati in grado di uscire più rapidamente, tramite una risoluta azione riformatrice, dalla crisi finanziaria e dei debiti sovrani”. Un posizionamento più contradditorio assume la Francia, mentre l’Italia si mantiene a debita distanza, su ambedue i lati del processo di internazionalizzazione, non solo rispetto ai paesi citati, ma anche comparativamente alla media dell’intera Europa e dei paesi dell’Europa a 27.

UNA SOLA FIAT NON BASTA
A trainare il club degli investitori italiani all’estero sono l’industria manifatturiera e il commercio all’ingrosso ma, nonostante l’affacciarsi sulla scena internazionale di molte nuove lmi, il bilancio finale è un gioco a somma zero. Perché, scrive l’Ice “alcune significative acquisizioni (valga per tutti l’operazione Fiat-Chrysler) sono state controbilanciate da un incremento delle dismissioni e dal venir meno del contributo di alcune multinazionali di grande e media taglia internazionale, oggetto di acquisizione da parte di multinazionali estere (per tutte Parmalat e Bulgari, alle quali si è aggiunta nel 2014 Indesit Company)”. Per il resto i confini nazionali restano ben chiusi, fatta eccezione per la “produzione e distribuzione di energia elettrica, gas e acqua, peraltro in gran parte grazie alle iniziative di due sole grandi imprese, Enel ed Eni”. Ciò che è cambiato in positivo rispetto al recente passato sono le destinazioni geografiche. Si sono cioè ridotte le partecipazioni in Europa occidentale e centro-orientale, a favore del Nord America, dove la nostra presenza era stata in passato piuttosto debole.

LA LENTA AVANZATA VERSO L’AMERICA E GLI EMERGENTI
A guidare la pletora di conquistatori degli States ancora Fiat su Chrysler a cui si sommano “numerose altre iniziative di altre imprese di grande e media taglia, in un ampio spettro di attività manifatturiere. In crescita anche la consistenza delle partecipazioni nei principali paesi emergenti dell’Asia e dell’America latina; ma soprattutto, al di là degli aspetti meramente quantitativi, si coglie una progressiva crescita dello spessore strategico delle iniziative intraprese” e un abbandono di mere iniziative di delocalizzazione. Gli imprenditori che investono fuori confine sono per lo più concentrati nel Nord del Paese e secondo l’Ice il Sud  egra parte del Centro sono sempre tagliati fuori da questo movimento secolare. “Rimangono dunque le carenze del modello di crescita multinazionale dell’Italia: un assetto che riflette i limiti strutturali di un Paese popolato da grandi imprese talvolta in difficoltà e da imprese minori che stentano a intraprendere i percorsi «più ardui» di crescita all’estero, quando essi coinvolgono investimenti a rischio medio-alto e ritorni differiti nel tempo”. Insomma, la solita vecchia immarcescibile impresa dei padroni all’italiana.


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