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Ignazio Marino, la società della bustarella e le nozze gay. Tutto quello che non capisco

Lasciamo stare i calcoli, più o meno astrusi, su quanto ci costa la corruzione domestica. Prendiamo il caso di Roma. Nella capitale il problema non è la mafia, ma la “società della bustarella”. Essa è espressione di uno schieramento pervasivo e trasversale che, in cambio del proprio consenso, è riuscito ad asservire la politica locale. Il sindaco Ignazio Marino è sicuramente una persona perbene, ma anche per un chirurgo come lui è non è stato facile affondare il bisturi nella carne della sua carne (il Pd). Alla fine, per parafrasare Ennio Flaiano, potrebbe vedersi costretto ad ammettere che “l’operazione è riuscita, ma il paziente è morto”.

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Dal punto di vista etico, mi sfugge quale sia la differenza tra chi corrompe e chi si lascia corrompere, nella sfera pubblica come in quella degli affari. A meno che un rozzo machiavellismo, secondo cui il fine giustifica sempre i mezzi, non porti a concludere che rubare per il proprio tornaconto personale è più riprovevole che rubare per il proprio partito. Semmai è vero il contrario, perché – come ha scritto Norberto Bobbio – nel secondo caso si traligna il fine e si perverte il mezzo.

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“Per trent’anni gli omosessuali si sono sempre caratterizzati come ‘i diversi’, e in nome di questa orgogliosa diversità hanno caratterizzato le loro battaglie per costringere la società a formulare un modello che andasse al di là del matrimonio classico borghese, che peraltro contiene in sé la parola madre, alla quale la cultura omosessuale è tendenzialmente estranea”. È un brano dell’intervista di Alessandro Giuli a Tommaso Cerno (il Foglio, 28 giugno 2013).

La cito perché mi pare di forte attualità. Infatti, come osservava due anni fa il giornalista dell’Espresso e ora direttore del Messaggero Veneto, occorrerebbe chiedersi se, fallito l’obiettivo di una forma alternativa di convivenza, la comunità gay – puntando anche in Italia (dopo i Pacs) alle nozze – non abbia barattato la “diversità” per “l’eguaglianza”, fino a snaturare l’essenza stessa delle sue lotte “in uno slittamento semantico che oggi dovrebbe essere oggetto di profonda riflessione”.

Non so se i cattolici della Corte suprema americana o i conservatori inglesi abbiano accettato il matrimonio omosex proprio per rivitalizzare un istituto in profonda crisi economica e di significato. Tuttavia, non si può negare che tra il gay marriage e il gay pride una contraddizione c’è. Del resto, come sottolineava Cerno, c’è qualcosa di più conformista e di meno giacobino “nell’immagine di una coppia gay che passeggia sul prato di una villetta residenziale portando a spasso il cane”?


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