Avevo in testa le immagini di Piazzapulita, quelle del documentario sull’Isis, quando ho preso la via per Ryiadh passando per Istanbul.
Non posso negare di non aver allacciato le cinture di sicurezza inghiottendo amaro. Mi facevo forza soltanto di questo, e cioè del fatto che la lettura di quanto avviene altrove, in particolare in quei luoghi che sono assai distanti dal nostro immaginario, non può che procedere semplificando. Riducendo la complessità a pochi concetti che, per immagini, viene poi appiccicata nelle teste dei telespettatori.
Quando arrivo all’aeroporto di Istanbul al gate da cui mi sarei imbarcato sul volo per Ryiadh, ero ormai lontano dall’Italia e dall’Europa. Il gate dove mi trovavo era adiacente a quello da cui sarebbe partito il volo per Astana. Un certo numero di emiri si stavano recando in Kazakistan a dimostrazione di come le vie della finanza, del petrolio e dei cambi valutari, corrano lungo altri meridiani, e battano ore di fuso diverse. Le facce caucasiche, nel loro miscuglio di tratti occidentali e orientali assieme, erano la trasfigurazione della centralità di Costantinopoli. Negli occhi di una ragazza – e che ragazza – la dolcezza delle linee aveva per raggio di curvatura la malia che mi attirava come fosse un’attrazione gravitazionale. Man mano che si avvicinava l’ora della partenza del mio volo, quelli che sarebbero stati i miei compagni di viaggio aumentavano e si accalcavano al gate, mostrando la loro identità ricca di dettagli interessanti. Non c’erano donne sole. Completamente incappucciate, erano tutte madri di famiglia con prole al seguito. Una di queste mi guardava. Anzi, mi fissava. E chissà, forse per incoraggiarmi, mise in bella mostra il piede da sotto il pastrano che la ricopriva tutta. E quel piede dentro una calzatura tutta nera mostrava il baffo Nike che la brandizzava e che, assieme al resto, ossequiava tradizione e moda. E chissà, pensai, che quel baffo che era pure un sorriso, non voleva essere appunto un modo tutto cifrato con cui voleva comunicare con me che ero evidentemente occidentale. Per non reggere quello sguardo, temendo di incappare in qualche guaio ancora prima di partire, guardavo il di lei figlio che giocava sul pavimento dell’aeroporto con una trottola proprio come il bimbo che apre e chiude Baaria di Tornatore. È così per interposto truppiettu ricambiai con un sorriso tutto mentale quello che avevo ricevuto per tramite di piede. Siccome eravamo sul far della sera, a un certo momento, due miei compagni di viaggio con tanto di bussola in mano, cercano la direzione di La Mecca per la preghiera. E, nel cortocircuitare tra Occidente e Oriente, finiscono inginocchiati di fronte a un tabellone pubblicitario con un pezzo di fimmina bionda a tutto schermo. Una scena, che se non fosse stato per la destinazione di quel volo, avrebbe dato adito a tutt’altra interpretazione. Ma le sorprese non erano ancora finite. Gli addetti all’imbarco, turchi, vedendo anche loro la scena dei due in preghiera, genuflessi, prendono e gli si avvicinano spiegandogli che La Mecca era esattamente dalla parte opposta. Al che i due si alzano tradendo un certo disappunto nei confronti dell’ago magnetico. Segno, in un certo senso, della fallacia dell’illuminismo Occidentale rispetto alla verità dell’intuizione mistico-estetica.
Ci imbarchiamo. E quanto a rispetto della fila, gli arabi sono proprio come noi italiani, meridionali in particolare. Segno di come non ci abbiano lasciato solo l’aritmetica e alcune coltivazioni, ma anche un poco di cattive maniere. Per non parlare, poi, della quantità di pacchi attaccati con lo spago.
Al momento del decollo, dopo i messaggi sulla sicurezza, è il momento della preghiera. Sui display passano in sovraimpressione, recitati in arabo, turco e inglese, alcuni versetti – tre strofe – con altrettante esortazioni ad Allah. Alla prima strofa ero, in effetti un poco basito, però alla terza pensavo che in fin dei conti una mano santa, dovendo passare sopra alla Siria, male non avrebbe fatto. Accanto a me un giovane arabo con tanta voglia di chiacchierare. Viveva da 8 anni in Canada dove aveva studiato Computer Science. Da due anni non tornava a casa a Ryiadh. Aveva un amico spagnolo compagno di studi a Toronto e così quando gli dissi che ero Siciliano – siciliano non italiano – la sua loquacità si accrebbe ancora di più. Gli ho spiegato che gli arabi erano passati da Spagna e Sicilia e che i segni di quel periodo viveva ancora sotto le spoglie della modernità dei brand e dell’estetica normalizzante. Gli ho detto pure di un paio di poeti di lingua araba che avevano cantato della Sicilia. E quando gli nominai Iqbal, al giovane programmatore informatico di Ryadh, di stanza a Toronto, è preso un colpo perché gli avevo riportato alla memoria delle strofe che ha iniziato a ripetermi in inglese.
Il bello però doveva ancora venire. Quando gli dissi che a Donnalucata c’era la fontana delle ore, fu come se gli avessi tirato una timpulata. Perché gli tornò alla mente più di un’ode, gli venne in mente che aveva dimenticato la preghiera. E così prese e si mise a recitare il suo Rosario, annacandosi su e giù verso il sedile che aveva davanti. Alla fine del rituale mi spiegò che in viaggio delle 5 preghiere giornaliere, è sufficiente farne solo 3.
Quando fummo su Ryiadh, dal finestrino mi apparve un’immagine che non mi aspettavo. Sembrava di essere tornato a Malpensa, d’inverno per giunta. Non si vedeva niente. E lui, l’amico arabo, mi spiegò che era polvere e sabbia. Era come vedere tutto da un bicchiere di acqua e anice. Fuori dall’aerostazione trovai una temperatura superiore ai quaranta gradi, ed era da poco passata la mezzanotte. Era caldissimo, ma senza umidità. Senti caldo, quasi non respiri, ma non sudi.
Ryiadh è una città concepita per le automobili come Los Angeles. Una passeggiata a Ryiadh non te la puoi fare. Anche perché le condizioni meteorologiche sono proibitive. Non ci cresce un albero a Ryiadh. Il giardino, infatti, è solo nel nome. La città è in pieno fermento edilizio. Ci sono cantieri ovunque. Il governo di Re Salman ha messo sul piatto 50 Mld per realizzare un centro finanziario e non si sa quante linee di metropolitana. Le linee e le forme dell’architettura di tutto il mondo, tutta vetro e acciaio, al netto del celolunghismo dei proprietari e degli appaltatori, sono tutte uguali. E, peggio delle vetrine che si divorano il commercio, le archistar si divorano ogni identità. Il mattone sta al piccolo risparmiatore come l’acciaio al petrolfinanziere. Tutto in barba alla diversità, alle identità, ai patriarchi russi, agli shamani, ai pellerossa, agli uyguri, ai curdi, a tutte le minoranze. A tutte le etnie costrette, tutte, a normalizzarsi sul bigmac. Girando per le vie di Ryiadh, al netto di un certo retaggio imposto da un’applicazione ancora molto osservante della religione, sembra tutto Occidente. Nella sua più bieca e normale rappresentazione. Uomini e donne stanno col cellulare in mano, rigorosamente Apple, e chattano mentre ciondolano nei centri commerciali refrigerati. La benzina costa 10 centesimi al litro per buona pace degli italiani di Como che, potessero, preferirebbero Ryiadh alla Svizzera. Fatto questo poi che ha un notevole impatto sulla qualità della vita quotidiana. Gli arabi di Ryiadh infatti vanno tutti in automobile, uno per macchina, e difficilmente prenderanno la metro a meno che il biglietto non sia gratis. I grattacieli che sono un po’ finiti e un po’ no, alla mia lente mentale del Sud-Italia, nel loro polveroso rifrangersi sui miei occhiali, mi ricordavano i nostri ecomostri.
Non si mangia poi neanche così male a Ryiadh. Non fosse per il cumino che è una fissazione. Paese che vai, ahimè, ketchup che trovi. Valentino, lo stilista, qui è di casa e firma le kefiah svelando come più che i simboli dell’occidente quello che si bruciano sono i quattrini. Che non hanno né etnia, né fede.
E pure sul lavoro non ci sono così tante differenze. E qui prendo in prestito la lettura che ne danno alcuni romani di stanza a Ryiadh: – Certo che ‘sti arabi con la scusa della preghiera non fanno ‘ncazzo -. Che è la moderna e multiculturale traduzione del bue che dice cornuto all’asino.
Insomma gli arabi sembrano molto più simili a noi di quanto pensiamo. E i conflitti sembrano una costruzione molto più artefatta che reale. Tra le persone con un poco di scuola alle spalle è possibile trovare molti più punti di contatto di quanto visti, passaporti, trattati e fedi religiose, usate ad arte dalla politica e dagli interessi geopolitici, vogliono farci credere. L’Isis in fin dei conti non è altro, per certi versi, che un’organizzazione criminale, come le mafie in Italia, che con ingredienti dal sapore globale torna utile per condire i piatti di politica estera dei masterchef arabi e occidentali. È poi sempre il solito discorso. Non avere nessun nemico è peggio che avere tanti amici.
Se le persone potessero viaggiare di più, sarebbe più difficile finire dentro la retorica mediatica. Schiacciati dal provincialismo di tanti maitre – penser che vivono bene non muovendosi mai dalla loro Ulubra. E sarebbe proprio il contrario di quanto affermava Flaiaino. Se gli uomini si conoscessero di più non si odierebbero.
Il celolunghismo delle archistar dalla grande mela alla mezzaluna
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