L’approvazione da parte del Consiglio dei ministri dello scorso 11 giugno di altri quattro decreti attuativi del Jobs Act, non porta in dote al sistema del mercato del lavoro certezze, anzi pone altri robusti interrogativi su come verrà applicata la governance dei provvedimenti nella loro concreta attuazione.
L’obiettivo chiaro è una deregolamentazione, notevoli differenziazioni nel mondo del lavoro, sia sui contratti che sulle tutele, e un aumento esagerato del potere delle imprese (magari singole e non è detto associate) senza elementi di riequilibrio in favore del sistema lavoro. La chiamano “innovazione e semplificazione” ma in verità si è realizzata una riduzione sostanziale della qualità del lavoro, degli spazi di contrattazione che lo rendono più povero e più fragile e sicuramente non maggiormente sviluppato e inclusivo.
Tempi lunghi e indefiniti di attuazione di un nuovo ed efficace sistema ( le coperture economiche e l’organizzazione delle nuove strutture in capo a Inps appaiono confusamente lontane anni luce) sia per i lavoratori occupati, così come quelli in sospensione da lavoro o disoccupati, la struttura del sistema di welfare in confusione. In materia di ammortizzatori si interviene con una riduzione dei tempi di copertura e degli strumenti a disposizione dei lavoratori.
L’introduzione del meccanismo per le aziende del bonus malus, pensato quale deterrente, potrebbe favorire i licenziamenti, visto l’aumento del costo delle contribuzioni nell’uso degli strumenti di “cassa“ e ha un bel da dire Poletti che vigilerà contro gli abusi.
Chi vigilerà? Così come i contratti di collaborazione e l’uso dei voucher, su ampie attività, pur ampliando la soglia dell’importo per lavoratore da 5.000 a 7.000 euro se non accompagnati da un sistema organizzativo e di controllo efficace, rischiano di avere un ruolo dannoso per abuso. Sul contratto di apprendistato di I e III livello, confermando la scelta di accesso a 15 anni, si cede il passo per la certificazione degli apprendimenti alle imprese in favore di un sistema duale molto lontano dal tanto invocato sistema tedesco, dalla qualità della formazione e troppo troppo vicino al lavoro fragile: anche questa tipologia contrattuale non si apre all’innovazione e alla ricerca con una sussidiarietà tra imprese, istituti scolastici e università che ne doveva qualificare e rilanciare anche a livello internazionale, la concorrenza e il finanziamento pubblico e privato.
Il contratto a termine è la cenerentola della riforma in quanto si conferma il non diritto del lavoratore e della lavoratrice a ricevere una formazione sufficiente e adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del contratto, non solo fondamentale per la prevenzione sui rischi da lavoro, ma anche per il famoso” libretto formativo” che dovrebbe accompagnare l’inserimento e la permanenza nel mercato del lavoro come risorsa della persona e per tutto il sistema produttivo. Sul possibile demansionamento della lavoratrice e del lavoratore, se in sede di Commissioni di Certificazione sarà possibile derogare alla norma sottoscrivendo accordi tra le parti , sarà allora necessario che l’attività ispettiva possa ratificare il provvedimento a tutela ovviamente della correttezza della decisione assunta, anche in materia di sicurezza sul lavoro.
Sui controlli a distanza si segnala un abuso rispetto alle norme sulla privacy, e il venir meno dell’obbligatorio accordo sindacale renderà più difficile assicurare indebiti usi delle informazioni. Il nuovo Ispettorato del lavoro, così come è stato concepito nella sua unicità, se non sorretto da opportuni finanziamenti – oggi non previsti – determinerà un progressivo svuotamento delle funzioni che garantiscono la lotta all’evasione e all’elusione contributiva e soprattutto, l’aver rimandato a data da destinarsi il riordino effettivo della unica funzione ispettiva, ovviamente non comporterà una autentica razionale ed efficace risorsa. Anche la manovra per azzerare le funzioni delle consigliere di parità è evidentemente una operazione per congelare e annientare il ruolo che insieme agli ispettori del lavoro operavano come dissuasori antidiscriminatori e sentinelle per una corretta valorizzazione delle risorse femminili.
La nuova Agenzia nazionale che si dovrà occupare delle nuove politiche attive nasce sulla carta rachitica come direbbe un grande sindacalista riformista come Bruno Trentin poiché la confusione furibonda delle norme istituzionali che dovranno regolarla, appare in tutta la sua inutilità sia per l’attività di gestione che di programmazione con un assorbimento di due aziende carrozzone come Isfol e Italia Lavoro, lavoratori e lavoratrici che per anni hanno beneficiato e usato risorse del FSE con missioni spesso ridondanti e sovrapposte. Il decreto legislativo disegna un sistema estremamente frastagliato, nel quale le competenze si diluiscono tra Ministero del lavoro, Agenzia, quel che resterà di Isfol ed Italia lavoro, regioni e province autonome, Inps e centri per l’impiego, sul cui destino e la cui funzionalità, tuttavia, le ombre sono tantissime. Il decreto infatti fa una giravolta straordinaria e non pone in capo all’Agenzia i 7500 dipendenti ed il costo complessivo (circa 700 milioni) dei servizi per il lavoro oggi operanti presso le province. Al contrario, attribuisce alle regioni ed alle province autonome il compito di erogare i servizi ai cittadino, attraverso propri uffici denominati centri per l’impiego. Dunque alle regioni passa il compito del funzionamento, dell’organizzazione e della spesa connessa ai centri per l’impiego, con una compartecipazione alla spesa, di 700 milioni annui, di soli 70 milioni (un decimo) per i soli anni 2015 e 2016.
Ecco appunto, e infine la questione su tutte: ma il nuovo sistema disegnato e programmato, con quali risorse d’investimento si potrà realizzare se saranno quelle che eventualmente si produrranno in ragione dei risparmi nell’uso della cassa integrazione?