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Libia, ecco perché il Piano B non potrà avere successo

Qualche giorno fa è ripresa in Marocco la mediazione dell’Onu, guidata dall’ambasciatore Bernardino Léon, per trovare un accordo fra le parti libiche stabilendo un governo di “concordia nazionale”.

La terza proposta avanzata da Léon fu respinta un paio di settimane or sono dalla coalizione che fa capo a Tripoli, quella dei rivoluzionari di Misurata e degli islamisti. In realtà, la coalizione di Tripoli è divisa e una buona parte di essa è pronta ad accettare la proposta di Léon.

È vero che la terza versione di accordo nazionale oggettivamente privilegia il governo Tobruk in quanto riconosciuto internazionalmente a seguito delle elezioni del giugno 2014.

Il “bias”, cioè l’atteggiamento a favore di Tobruk, si radica nelle alleanze regionali dell’Occidente, che sono anche quelle del governo riconosciuto internazionalmente, e nelle sue preoccupazioni per gli sviluppi dell’estremismo nella regione, le stesse preoccupazioni che sono alla base della coalizione anti-Isis.

Tuttavia, la proposta è migliorabile e quelli di Misurata che l’appoggiano si rendono realisticamente conto che sarebbe difficile ottenere nel contesto internazionale di più di quello che Léon propone.

Léon è alla quarta stesura

In Marocco è stata ora presentata una quarta versione dell’accordo. Non si conoscono ancora i particolari, ma a questo punto sono quelli della coalizione di Tripoli a insorgere contro le Nazioni Unite.

C’è anche stata una riunione di rappresentanti parlamentari di entrambe le coalizioni a Berlino, dalla quale è apparso con chiarezza che le posizioni sono diversificate in entrambi gi schieramenti e che l’opposizione più seria alla mediazione proposta dall’Onu viene dalla cerchia del generale Hiftar, e forse anche dal primo ministro Al Thani, che nel tempo si è sempre più avvicinato a Hiftar.

Ciò è comprensibile, perché quelli di Tobruk sanno che gli occidentali sono molto preoccupati ma al tempo stesso hanno paura di mettere le dita nell’ingranaggio libico. Non a torto quindi pensano che, se fallisce la mediazione, gli occidentali non hanno altre alternative che contare sul governo di Tobruk e i suoi alleati regionali per combattere Isis e clandestini.

Ma un accordo politico nazionale resta di gran lunga la soluzione migliore e più stabile, anche sotto il profilo della sicurezza occidentale. Tale accordo sarebbe in definitiva fra i moderati delle due parti e costituirebbe una svolta fondamentale nella crisi libica, consentendo di mettere ai margini, senza escluderli, gli islamisti moderati (come i Fratelli musulmani), che sono comunque una minoranza, ed escludere invece i gruppi estremisti (che stanno confluendo nell’Isis).

Se in Libia si arrivasse a delineare questo tipo di arena politica, i conflitti non sarebbero finiti, ma il Paese riuscirebbe ad avere un governo solido abbastanza da confrontarli e l’Occidente a fornire l’aiuto necessario senza il rischio di aggravare e perpetuare la crisi com’è oggi.

L’Occidente e il Paese delle tre crisi

Non sappiamo se Léon ci riuscirà. Lui ha fatto una buona proposta di accordo. I governi occidentali devono però convenientemente aiutarlo, una cosa che finora non hanno fatto. Essi devono modificare le politiche regionali in modo da sgravare la mediazione dallo squilibrio pro-Tobruk che sin dall’inizio l’opprime e, forse ancora di più, stabilire con chiarezza l’ordine di priorità fra le varie crisi che fanno capo alla Libia.

Ci sono in Libia tre crisi: una è quella che s’incarna nella guerra civile. Questa crisi ha portato a un vuoto di governo sul territorio che ha a sua volta facilitato le altre due crisi: quella della penetrazione dell’Isis dalla Mezzaluna Fertile al Nord Africa e quella dell’immigrazione clandestina, un business organizzato, non meno forte di quello della droga in America Latina, che sta assumendo proporzioni insopportabili.

Il rapporto che c’è fra queste crisi non è biunivoco. Se si risolve la crisi politica libica si pongono senza dubbio le basi per poter risolvere le altre due, con azioni sia militari, sia di controterrorismo, sia economiche, in cui l’appoggio occidentale risulterebbe efficace (avendo un governo di controparte); se si comincia invece dall’affrontare le altre due con azioni militari o di polizia, i governi occidentali risponderebbero, sì, alle forti pressioni e preoccupazioni interne in atto, ma aggraverebbero la crisi politica libica e, ciò facendo, indebolirebbero i loro stessi interventi (come del resto sta accadendo in Iraq e Siria).

Il 16 giugno prossimo si riuniscono a Roma i funzionari dei Ministeri degli Esteri del gruppo dei D-10 (Australia, Canada, Corea del Sud, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Ue, Usa, con La Polonia e la Spagna come osservatori) con l’obiettivo di discutere sul da farsi. È un momento giusto per farlo, a patto che essi ribadiscano la priorità della soluzione politica e diano i segnali necessari alla sua attuazione, affrontando le questioni che ostacolano il compromesso e sulle quali ci siamo soffermati più sopra.

La riunione a Roma del D10

Per ora il Piano B per una mediazione che in effetti tanto stenta ad affermarsi deve essere il miglioramento del Piano A. Non deve assolutamente essere il varo di missioni per affrontare le emigrazioni clandestine o l’Isis, perché queste missioni non si connettono alla risoluzione della crisi politica libica e potrebbero solo aggravarla. Questo non significa che dette crisi non debbano essere affrontate: il punto è che debbono essere affrontate nel loro merito e non, erroneamente, come soluzioni alla crisi libica.

Il Piano B inteso come intervento militare (il secondo, dopo il disastro politico combinato dal primo) è diventato un fantasma che gira per l’Europa. Tuttavia, è necessario guardarsene per non incorrere nel rischio di vanificare gli sforzi finora ben diretti per procurare il necessario successo alla mediazione.

Se il Piano A fallirà l’Occidente avrà a sua disposizione nient’altro che un Piano B, che è un copione già scritto: un’alleanza con l’Egitto e Tobruk perché facciano essi il lavoro con qualche aiuto occidentale sul terreno del controterrorismo.

Questo Piano B è illusorio (e non ha un Piano C come sua alternativa). A giudicare da quello che si vede nella Mezzaluna Fertile e nello Yemen non sarà una grande soluzione, anzi sarà senza dubbio cattiva.

Non resta quindi che rimboccarsi le maniche, sostenere strenuamente il Piano A, e mettere in opera le modifiche necessarie all’accordo fra i libici e alle politiche occidentali nella regione, politiche che certo non aiutano la mediazione di Léon. Al di là c’è un déjà vu davvero poco promettente.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.

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