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L’Italia che ha paura di cambiare

Dal 24 marzo, giorno in cui è diventato legge il decreto Investment Compact, si attende che il Ministero dello Sviluppo economico pubblichi l’atto costitutivo standard per la costitutizione di una nuova società, una startup, con la firma digitale, senza bisogno di andare da un notaio. Sono tre mesi che in via Veneto stanno cercando di trovare la quadratura del cerchio per dare attuazione a una norma di legge e non scontentare i professionisti che hanno subito alzato esagerate grida d’allarme contro la semplificazione.

Nel frattempo un gruppo di onorevoli architetti bipartisan ha presentato per la prima volta in Italia un’interrogazione parlamentare contro una piccola startup italiana, Cocontest, accusata addirittura di “schiavizzare” gli architetti, appunto, perchè consente a chi ha bisogno di arredare una casa o un ufficio di lanciare una gara online e scegliere poi la proposta più convicente. Lo chiamano crowdsourcing e non è previsto da alcun ordinamento professionale. E intanto i giovani fondatori di Cocontest sono volati negli Stati Uniti, in un acceleratore di Mountain View, e stanno già trovando nuovi finanziamenti.

 Tutti hanno saputo della decisione del Tribunale di Milano che ha bloccato UberPop, ma pochi si sono accorti di un parere del Ministero dello Sviluppo economico che equipara il social eating, la condivisione di pranzi e cene in casa propria, all’attività dei ristoranti. Nel mirino c’è un’altra startup, Gnammo, che mette già a tavolo decine di migliaia di persone e viene valutata circa 3milioni di euro. Se le Camere di Commercio e le autorità locali daranno seguito al parere governativo, di fatto la uccideranno. E magari fra poco tempo ci troveremo in Italia i servizi Eatwith, che è la più grande piattaforma americana di social eating.

Le resistenze all’innovazione non conoscono confini geografici, culturali, politici e di censo. Le ragioni sono spesso valide e comprensibili ma la strategia è quasi sempre sbagliata perché nasce da uno sguardo rivolto all’indietro. Prendersela con i notai, i tassisti, gli architetti o qualche fin troppo diligente funzionario ministeriale ormai è come sparare sulla croce rossa. Che ne sanno loro di crowdsourcing e sharing economy? Perché dovrebbero avere una visione innovativa della crescita economica del Paese? Le manifestazioni ricorrenti di un corpo sociale che sembra più spaventato dal cambiamento che interessato dalle opportunità che offre sono comprensibili: gli interessi vanno tutelati e servono quindi nuove regole. Quel che deve preoccupare è, al di là delle dichiarazioni illuminate buone per un’intervista o un convegno, la mancanza di una visione generale, di una politica economica innovativa che lavori per una inevitabile fase di transizione verso il nuovo.

Chi pensa di poter mantenere lo status quo fa male alla società e soprattutto a se stesso. Come chi pensava, qualche tempo fa, di poter fermare le locomotive nelle praterie americane o i telai nelle fabbriche europee.



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