Per ragioni anagrafiche (e per poco interesse per i film storici caratterizzati da una lunga durata), molto probabilmente Matteo Renzi non ha mai visto Napoleone ad Austerlitz del 1960, grande produzione franco italiana per rivaleggiare con Hollywood concepita e diretta di un Abel Gance quasi ottantenne. Ne erano interpreti, tra gli altri, Pierre Mondi, Jean Marais, Orson Wells, Vittorio De Sica, Rossano Brazzi e Claudia Cardinale. Renzi la sua Austerlitz l’ha avuta con le elezioni europee. Il “dopo Austerlitz” pare giunto per lui prima che per Napoleone.
In una sequenza importante del film, mentre i grandi d’Europa rendono omaggio a Bonaparte, Charles Maurice de Talleyrand-Périgord – comunemente conosciuto come Tayllerand, uno che di politica se ne intendeva e che resto al centro del potere tra Regni, Rivoluzioni ed Imperi -, gli sussurra nell’orecchio Mio Imperatore, questo trionfo significa che la prima battaglia perduta sarà la fine di tutto. La battaglia di Austerlitz ebbe luogo il 2 dicembre 1805; nel 1812, la battaglia di Borodino (a cui Toltsoj dedica circa 200 pagine in Guerra e Pace) fu la prima sconfitta ed il preludio di esilio all’Elba.
Non so se le recenti elezioni regionali siano state la Borodino di Matteo Renzi. Indubbiamente non sono state una vittoria. L’asettica agenzia giornalistica ANSA riassume gli esiti con una frase al tempo stesso tacitiana ed ironica Il Pd soffre, più del previsto, ma alla fine ottiene quel 5 a 2 che in nottata il vice segretario Lorenzo Guerini ha definito un importante risultato. Lascio ai politologi (l’Italia ne strabocca di tutti i ranghi e le qualità) l’’ardua sentenza”.
Da semplice economista, mi limito a ripetere la frase che James Carville costruì per la campagna elettorale di Bill Clinton It is the economy, stupid. Alla base del risultato ci saranno le prassi secolari correntizie della sinistra, un renzismo poco di centro-sinistra e non molto differente dal berlusconismo dei primi anni, ma c’è soprattutto l’andamento dell’economia. Non solamente una crescita economica che, dopo otto di recessione, promette di non superare lo 0,6% nell’anno in corso, un tasso di disoccupazione al 13% delle forze di lavoro, una svalutazione interna del 30% circa rispetto al 2007, ma soprattutto la diffusa convinzione che il Jobs Act e la Buona Scuola, unito agli sprechi di Stato (con conseguente danno erariale), quasi rendere impossibile il funzionamento di organi di rilievo costituzionale, non sono le riforme strutturali per rimettere l’Italia in cammino.
Quali sono queste riforme? La mattina del 27 maggio, Vikram Aksar, Direttore del Dipartimento Economie Avanzate del Fondo Monetario, lo ha illustrato a un gruppo di economisti invitati ad uno dei brown bag lunches (pranzi con un panino) organizzati dal Dipartimento del Tesoro in una delle belle sale di riunione della Ragioneria Generale dello Stato. Nulla di carbonaro o di clandestino. Erano presenti economisti di varie età (soprattutto giovani) e di varie scuole. L’invito è stato, come sempre, inviato a Palazzo Chigi. Peccato che nessuno degli economisti che collaborano con il Presidente del Consiglio abbiano ritenuto opportuno pranzare con un panino per partecipare a un incontro di peso. Preferiscono La Taverna Flavia se e quando vanno dalle parti di Via Venti Settembre.
In breve, l’analisi parte da differenze settoriali di produttività nei principali settori dell’economia e ne raffronta gli andamenti per i principali Paesi industriali utilizzando tecniche innovative. Senza entrare in questi aspetti, è importante sottolineare che in quasi tutti i comparti (e nella produttività multifattoriale), l’Italia ha quasi sempre la maglia nera. Questo – mi si dirà – lo sapevamo già. La parte innovativa è che le tecniche econometriche utilizzate mostrano come il comparto più serio è quello dei servizi e che la scarsa produttività che li caratterizza deriva da quando poco è stato fatto in materia di liberalizzazioni.
Si dirà che lo sapevamo già. Ce lo ha detto l’Ocse e ce lo ripete proprio in questi giorni il volume Liberalizzazioni: un’incompresa necessità dell’Associazione Società Libera. Il lavoro del Fondo si distingue da questi per la drammaticità e la chiarezza: senza una forte liberalizzazione dei servizi, il resto serve poco. Ma – hanno detto alcuni partecipanti – il governo Renzi è pronto ad uno scontro con i tassisti, con i notai, con i piccoli esercizi commerciali, con le micro aziende di consegna di libri, giornali e pacchi vari?