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Mps, Unicredit, Intesa. Ecco l’impatto del decreto sulle sofferenze

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Nei confronti di banche ed assicurazioni, il governo è intervenuto questa settimana con un decreto legge sulla deducibilità integrale ai fini dell’Ires e dell’Irap delle perdite o delle svalutazioni sui crediti e gli altri attivi nell’esercizio stesso in cui sono rilevate in bilancio: viene meno la deroga finora vigente che le penalizzava, in quanto andavano ripartite in quote uguali su cinque esercizi. In via transitoria, il testo prevederebbe nel primo anno una aliquota del 75% e la diluizione a scalare del residuo nei successivi quattro anni.

Lo Stato rinuncia così ad una rateizzazione quinquennale, a suo favore, delle minori entrate che derivano dalle perdite: non fa alcun regalo, anzi. E’ un modo per parificare il trattamento fiscale delle banche italiane rispetto a quello vigente negli altri Paesi europei, costituendo un level playing field che consenta loro di giocare ad armi pari sui mercati e nei confronti degli azionisti.

Nel medesimo decreto vengono introdotte una serie di norme volte ad accelerare il processo di esecuzione nei confronti dei debitori e la chiusura dei fallimenti: è un altro modo per avvicinarci agli standard di piena funzionalità del sistema giudiziario, che da tempo viene sollecitata. L’Abi, nel suo Monthly Outlook di marzo scorso, rilevava che l’elevato livello delle sofferenze è anche determinato dalla lunghezza delle procedure di recupero dei crediti.

I più recenti dati del Ministero della Giustizia segnalano che nel 2012 la durata media dei procedimenti di fallimento era pari mediamente a 7 anni, con punte di 20 anni a Messina. La durata media dei procedimenti di esecuzioni immobiliari era di 3 anni e 5 mesi, con punte di oltre 7 anni a Potenza.

Si interviene così su una duplice correlazione che lega le sofferenze al regime fiscale delle banche ed ai tempi di recupero dei crediti: per un verso viene rimosso il disincentivo tributario alla cessione dei crediti in sofferenza ad operatori specializzati nel loro recupero, che ovviamente avviene a sconto sul valore risultante nei bilanci bancari dopo la svalutazione, e dall’altra la più celere procedura giudiziaria di esecuzione dovrebbe elevare il prezzo a cui viene ceduto il credito in sofferenza. Con il decreto, le banche potranno dedurre dalle imposte in un solo esercizio la differenza tra il valore di bilancio ed il prezzo di cessione.

Per quanto attiene alla dimensione, le sofferenze bancarie lorde erano pari a 185,5 mld a gennaio scorso, con un rapporto sugli impieghi del 9,7%, (era dell’8,4% un anno prima e del 2,8% a fine 2007). Questo valore è del 16,3% per i piccoli operatori economici (14,2% a gennaio 2014; 7,1% a fine 2007), il 16,3% per le imprese (13,4% un anno prima; 3,6% a fine 2007) ed il 7% per le famiglie consumatrici (6,5% a gennaio 2014; 2,9% a fine 2007).

Il rapporto sofferenze nette su impieghi totali è risultato pari al 4,50% a gennaio 2015 dal 4,64% di dicembre 2014 (4,31% a gennaio 2014; appena lo 0,86% prima dell’inizio della crisi). La dinamica delle sofferenze dimostra la correlazione diretta con la crisi economica, con un fattore moltiplicativo che è pari a tre volte. Le sofferenze nette hanno registrato a gennaio 2015 una diminuzione, passando da 84,5 miliardi di dicembre a 81,3 miliardi di gennaio, per effetto degli smobilizzi.

Se, in astratto, il giudizio sulle misure assunte dal governo, non può che essere positivo, in concreto c’è il timore che, non essendo accompagnate da misure di salvaguardia, possano determinare conseguenze estremamente negative. Per ordini di grandezza, i crediti in sofferenza riguardano oltre 1 milione e duecentomila soggetti affidati, con una polarizzazione su tre classi: la prima, in termini di numerosità, è quella dei crediti compresi tra i 250 ed i 30 mila euro, che riguarda circa 750 mila persone, con sofferenze lorde totali per 6 miliardi di euro.

La seconda riguarda i crediti di entità compresa tra i 125 mila ed i 250 mila euro, che coinvolge circa 100 mila soggetti, per un importo di sofferenze lorde di circa 18 miliardi di euro. Infine, la terza categoria concerne i crediti compresi tra i 5 milioni ed i 25 milioni di euro, che riguardano circa 5 mila imprese, per un importo totale di sofferenze che supera di poco i 37 miliardi di euro. In totale, ci sono circa 27 mila imprese che hanno crediti in sofferenza per un importo superiore al milione di euro, per un totale che sfiora i 100 miliardi di euro.

Dal punto di vista della distribuzione territoriale, le regioni del nord-ovest e del nord-est cumulano insieme circa centomila casi di imprese con crediti in sofferenza, per circa 60 miliardi di euro: rappresentano la metà degli affidati con eventi di default di credito e dell’ammontare delle sofferenze lorde per questa categoria: il prezzo più salato della recessione è stato pagato dalle regioni tradizionalmente più dense di aziende.

Infine, per quanto riguarda i comparti economici, le sofferenze maggiori riguardano il settore manufatturiero per oltre 30 miliardi di euro, quello delle costruzioni per oltre 36 miliardi e quello delle attività immobiliari per oltre 15 miliardi. Insieme, questi due ultimi cumulano sofferenze per circa tre punti percentuali di Pil.

Lo smobilizzo delle sofferenze bancarie andrà ad incidere su due insiemi socioeconomici completamente diversi. Si interverrà su centinaia di migliaia di crediti di piccolissima entità, il cui valore non giustifica neppure le spese giudiziarie e legali necessarie per la loro riscossione, con il rischio di innescare un diluvio di procedimenti di pignoramento di immobili per importi davvero esigui, con conseguenze sociali destabilizzanti. Non è da escludere che i tribunali rifiutino di mettere una casa all’asta per onorare un prestito scaduto di poche migliaia di euro, per l’evidente sproporzione tra pretesa e rimedio. Dall’altra parte, si interviene su un numero abbastanza contenuto di imprese, concentrate in tree settori: manifattura, edilizia ed immobiliare.

Mentre negli Usa, colpiti dalla crisi dei mutui subprime, la Fed ha alleggerito il comparto immobiliare acquistando le Mbs emesse dalle agenzie federali, in Italia abbiamo già provocato un primo collasso del settore introducendo l’Imu, che è una vera e propria patrimoniale. Un secondo collasso dei prezzi delle abitazioni sarà determinato dall’allineamento dei valori catastali a quelli di mercato, previsto dalla delega fiscale ancora non esercitata: è una idea davvero balzana, sia perché che in molte aree non ci sono transazioni ma solo offerte di case in vendita, sia perché determina un ulteriore fattore di incertezza per l’eventuale acquirente.

Ora c’è il rischio che si aprano le cateratte: il decreto legge appena varato può dare vita ad una alluvione di esecuzioni forzate immobiliari, per case di abitazione, capannoni industriali e locali commerciali. D’altra parte, oltre la metà delle garanzie prese dalle banche ha natura immobiliare, in ciò rispecchiando la allocazione della ricchezza delle famiglie italiane. Nel complesso, a fronte di circa 200 miliardi di euro di sofferenze lorde, ci sarebbero almeno 100 miliardi di asset immobiliari messi a garanzia, da vendere con procedure forzate.

Il mercato immobiliare ne risentirebbe senza rimedio, e le stesse banche si troverebbero costrette ad allineare ai nuovi prezzi degli immobili i valori delle garanzie in essere sui crediti in bonis. Invece di risanare i bilanci, le banche sarebbero costrette a chiedere a questi affidati una integrazione delle garanzie, ovvero la riduzione del credito.

Bisogna evitare di dare un altro colpo d’ariete al comparto immobiliare: servono incentivi immediati, chiari e prospetticamente convincenti, sia per l’acquisto delle abitazioni da parte dei cittadini, sia per i fondi di gestione immobiliare, sia per i patrimoni immobiliari aziendali. Come fu fatto con la legge Tupini per agevolare la costruzione di case nel dopoguerra, e con i decreti Goria per agevolare l’acquisto della prima casa da parte delle giovani coppie negli anni Ottanta.

Vale lo stesso per le crisi aziendali: per quanto le banche insistano nel voler mantenere i rapporti con le imprese, nonostante la cessione delle sofferenze, c’è il rischio che ad acquisire le sofferenze siano operatori finanziari interessati unicamente all’incasso forzato del credito, quanto più rapidamente possibile, anche a costo di chiedere il fallimento dell’impresa. D’altra parte, tutto il decreto è finalizzato a garantire un veloce smobilizzo delle sofferenze e la rapida escussione dei crediti. E’ in ballo il futuro di oltre 200 mila società, di cui oltre la metà operano nei servizi.

Appena 500 società hanno sofferenze per oltre 20 miliardi di euro. Sono state tenute in piedi, nonostante la crisi, dal credito bancario: ora, non si può fare un sol fascio, mandando tutto al macero. Servono provvedimenti di politica industriale: le imprese sono la prima infrastruttura di un Paese, altrimenti le autostrade ed i porti non servono a nulla. Il Piano Junker è lì che aspetta proposte, per finanziare investimenti che abbiano un ritorno.

Non basta liberare i bilanci delle sofferenze per far riprendere il credito e l’economia. Senza provvedimenti sistemici, contestuali, per il comparto immobiliare e produttivo, le conseguenza potrebbero essere molto negative, non solo per l’economia italiana e per l’Erario, quanto per le stesse banche ed assicurazioni: partirono per suonarle, ma furono suonati.


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