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Nato, quale strategia adottare nella crisi ucraina?

La visita di Vladimir Putin in Italia ha riportato l’attenzione sulle tensioni esistenti tra Occidente e Russia, in particolare a causa della crisi in Ucraina e delle conseguenti misure economiche e militari adottate da Ue, Usa e Nato.

La tregua basata sul cessate il fuoco in Ucraina siglato tra le parti a Minsk lo scorso 15 febbraio – i cosiddetti “Accordi di Minsk 2” – si è rivelata fragile, dal momento che le violenze e gli scontri sono ripresi in diverse occasioni.

Il presidente Putin continua a negare il sostegno militare della Russia ai separatisti. Tuttavia sono recenti le notizie di un rafforzamento della presenza di truppe e armamenti provenienti da Mosca nelle repubbliche separatiste.

Dall’altro lato del fronte che taglia in due l’Ucraina orientale, le parole del presidente ucraino Petro Poroshenko sono tutt’altro che rassicuranti: ha affermato, infatti, che la guerra finirà solo nel momento in cui Kiev si riprenderà la Crimea.

La crisi non è ovviamente solo tra l’Ucraina e la Russia, ma tra quest’ultima ed i Paesi occidentali, come testimoniato dalle conclusioni dell’ultimo G7 in Germania in cui si è ventilata l’ipotesi di prolungare ed inasprire le sanzioni economiche a Mosca in caso di violazione degli accordi di Minsk 2, nonché dalle recenti ipotesi sullo sviluppo di sistemi missilistici americani e russi in Europa.

In questo contesto, il ruolo della Nato è particolarmente importante e delicato: si tratta infatti di rassicurare gli Stati membri dell’Alleanza che si sentono minacciati dalla Russia e di creare una deterrenza contro ulteriori azioni aggressive russe, senza però portare ad una escalation di misure militari slegata da un dialogo strategico tra Occidente e Federazione russa – dialogo necessario se si vuole ricostruire una architettura di sicurezza regionale in Europa.

Il Readiness Action Plan in azione

All’ultimo vertice Nato del 2014 è stato adottato il Readiness Action Plan, la cui “punta di lancia” consiste in una forza di reazione ancora più rapida della già esistente Response Force dell’Alleanza, comprendente truppe di terra con il supporto di forze speciali, aeree e navali.

La realizzazione di questa “punta di lancia” prevede anche la presenza di postazioni di comando e controllo, pre-posizionamento di rifornimenti ed equipaggiamenti nel fianco orientale dell’Alleanza, tramite contingenti posizionati a rotazione nei Paesi membri dell’Est Europa.

Negli ultimi mesi si sono tenute numerose esercitazioni militari in questa regione, con la partecipazione delle forze americane insieme a quelle di Paesi partner come Svezia e Finlandia.

Anche Germania, Danimarca e Regno Unito prevedono di contribuire significativamente con le loro truppe alle attività previste nei Paesi Baltici. Ciò nonostante Estonia, Lettonia e Lituania, insieme alla Polonia, hanno espresso preoccupazione per la possibilità di azioni russe nel loro territorio auspicando, per questo motivo, una presenza permanente di truppe Nato che potrebbe essere discussa nel prossimo vertice dell’Alleanza in calendario a Varsavia a luglio 2016.

Tale azione, però, rappresenterebbe una violazione del Funding Act on Mutual Relations tra Nato-Russia del 1997, atto a sua volta violato dalla Russia con l’annessione della Crimea.

L’Unione fa la forza?

La risposta Nato non si concretizza solo nel Readiness Action Plan. Di fronte ai ministri degli Esteri dei Paesi alleati riunitisi lo scorso maggio in Turchia l’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dell’Ue Federica Mogherini e il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg hanno affermato la loro volontà di rafforzare la cooperazione contro le azioni russe, in particolare nel contrasto alle azioni di “guerra ibrida”.

Con l’espressione “guerra ibrida” ci si riferisce a una combinazione di tecniche di guerra tradizionale, attacchi cibernetici, propaganda, misure economiche e/o sugli approvvigionamenti energetici. Proprio per questo, secondo alcuni analisti, la risposta militare elaborata sinora da parte Nato potrebbe rivelarsi insufficiente se non addirittura inappropriata a rispondere a tale minaccia “ibrida”.

La questione è, quindi, non solo se si stia facendo abbastanza, ma se la strategia sia quella giusta. Lo stesso Stoltenberg ha affermato che l’Alleanza deve adattarsi ai cambiamenti in corso nel contesto di sicurezza internazionale.

D’altra parte, alcune azioni di guerra ibrida si pongono al limite della “sfera di competenza” Nato: resta da chiarire, infatti, se attacchi cyber rientrino nell’ambito dell’art. 5 del Trattato di Washington che regola la difesa collettiva dei Paesi membri dell’Alleanza, affermando che un attacco armato contro uno o più di essi è considerato come un attacco diretto contro tutte le parti le quali sono, quindi, chiamate a fornire assistenza.

Questa presa di coscienza e la rinnovata volontà di cooperazione tra Nato e Ue potrebbero essere il primo passo verso una risposta più elaborata e coordinata, che unisca le capacità di un’alleanza militare come la Nato al comprehensive approach dell’Ue.

Di certo, per la Nato come per l’Ue, l’imperativo è legare le proprie azioni (e dichiarazioni) a una strategia verso la Russia, che parta dalla necessità di tenere aperto il dialogo, evitando quindi un pericoloso muro contro muro e un ulteriore aggravarsi della situazione, per puntare ad una soluzione della crisi apertasi in Europa col conflitto in Ucraina.

Alessandro Marrone è ricercatore presso l’Area Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: Alessandro_Ma); Paola Tessari è assistente alla ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @paola_tessari).

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