Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’articolo di Luca Gualtieri apparso su MF/Milano Finanza, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi
I vertici delle grandi banche popolari italiane si dichiarano pronti a cavalcare le opportunità della riforma Renzi-Padoan, ma non nascondono l’incertezza. Soprattutto a fronte di una valanga regolamentare che inevitabilmente condizionerà le strategie degli istituti cooperativi, a partire dalla scelta del partner.
Ha viaggiato su questo doppio binario il dibattito che due giorni fa ha accompagnato l’undicesima edizione del Banking Day, dedicata alla riforma delle banche popolari e organizzata da Boston Consulting Group (Bcg) e MF-Milano Finanza nella suggestiva cornice del Hotel Principe di Savoia a Milano.
Dando prova di laicità di vedute, tutti i banchieri presenti hanno convenuto sulla necessità di una riforma del sistema. «Il difetto delle banche popolari è stato per troppo tempo la governance», ha esordito Giuseppe Castagna, consigliere delegato della Banca Popolare di Milano. «Gli assetti di governo di questi istituti sono troppo spesso figli di logiche affiliative e conservative che poco si curano delle performance industriali. Non a caso», ha continuato il banchiere, «storicamente si sono verificate pochissime fusioni spontanee tra banche popolari».
Più sfumata, ma comunque in linea con Castagna, la posizione dell’amministratore delegato della Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Alessandro Vandelli: «in questi anni ha preso forma una contraddizione all’interno delle popolari: da un lato il peso nel capitale degli investitori istituzionali è cresciuto costantemente, dall’altro la governance è rimasta ancorata al principio del voto capitario». La mossa del governo però ha aperto seri interrogativi sugli assetti di governo delle future spa e sulla possibilità di costituire noccioli duri di azionisti.
Un esperto della materia come l’avvocato Luigi Arturo Bianchi (studio d’Urso Gatti e Bianchi) ha ricordato gli strumenti a disposizione delle banche, dalle loyalty share ai patti di sindacato, senza dimenticare la possibilità di scorporare l’attività bancaria dalla holding cooperativa, dando vita a un modello federale. I banchieri presenti hanno avanzato più di un perplessità su quest’ultima opzione, giudicandola antiquata rispetto all’evoluzione del settore. «Oggi andiamo tutti verso un modello di banca unica e un sistema federale avrebbe senso soltanto come soluzione temporanea», ha puntualizzato Castagna, a cui però Vandelli ha ribattuto che «un modello federale con banche controllate al 100% e senza sovrapposizioni territoriali potrebbe essere una soluzione ideale per integrare due gruppi».
Il dibattito non poteva ovviamente eludere il tema delle aggregazioni, approdo naturale di molti istituti prima o dopo la trasformazione in spa. «Non possiamo assolutamente permetterci di sbagliare la prima fusione, perché in seguito diventerebbe difficilissimo recuperare», ha spiegato Vandelli ricordando però la necessità di costituire subito un nucleo stabile di soci: «È impensabile andare in assemblea per votare un’aggregazione con un altro istituto bancario senza prevedere come si formerà il consenso. Un nocciolo di azionisti stabili si rivelerebbe utile soprattutto per scongiurare il rischio che un soggetto con intenti speculativi venga a comandare, a fronte di investimenti di poche centinaia di milioni», ha concluso Vandelli.
Anche per Castagna il risiko sarà una tappa fondamentale nel futuro delle banche popolari: «Esistono realtà solide e importanti che possono giocare un ruolo di primo piano ed è giusto che si mettano assieme. Partire per primi è fondamentale: è più facile, garantisce più trasparenza e fa capire al mercato che ci si sente tranquilli», ha spiegato il numero uno della Bpm. Se insomma i banchieri sono pronti a cavalcare le opportunità della riforma Renzi-Padoan, non mancano gli elementi di incertezza che potrebbero rallentare il processo.
Castagna chiede «maggiore chiarezza» sul fronte dei requisiti patrimoniali richiesti, perché questa incertezza oggi obbliga oggi le banche a muoversi con i piedi di piombo. «Dalle regole odierne sembrerebbe che non occorra capitale aggiuntivo in vista delle fusioni, ma la Bce dovrebbe confermarlo esplicitamente quando le verrà sottoposta qualche ipotesi di aggregazione. Personalmente, non mi sentirei così fiducioso nel proporre una fusione in assemblea se non avessi la certezza di quello che chiede Francoforte sul fronte della solidità patrimoniale», ha puntualizzato il numero di Piazza Meda.
Vandelli si è invece soffermato sulla difficoltà di individuare la combinazione giusta. «L’acquisto di una banca piccola da parte di una più grande non presenta rischi di execution, ma non si sa bene quanto ne valga la pena. La combinazione di un istituto debole con uno forte può destare invece qualche timore sul fronte regolamentare. Una fusione tra uguali infine è l’operazione più difficile da mettere in cantiere per la difficoltà di trovare un equilibrio tra le parti», ha concluso il ceo di Bper. Ecco così spuntare nel dibattito il tema della spartizione delle poltrone. I banchieri hanno subito sgombrato il tavolo dai dubbi: «Mi sembra che la situazione di eccezionalità creata dalla riforma renda poco realistici i criteri da manuale Cencelli», ha tagliato corto Castagna, a cui Vandelli ha fatto eco: «Con gli advisor preferisco parlare di strategie industriali piuttosto che di poltrone». Anche se, in base alla propria esperienza professionale, Bianchi ha ricordato che la governance è quasi sempre lo scoglio su cui si incagliano le aggregazioni bancarie