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Renzi, le suore di clausura e il coltello di Rosy Bindi

Le cronache riferiscono di una Rosy Bindi particolarmente rabbuiata al ricevimento per la festa della Repubblica, nei giardini del Quirinale, in tailleur abbondante e rigorosamente nero, conforme anche al suo ruolo di presidente della Commissione parlamentare antimafia.

Di motivi per “non regalare nemmeno un sorriso”, come si legge sul Corriere della Sera, agli ospiti di Sergio Mattarella, e probabilmente allo stesso capo dello Stato, la signora ne aveva di sicuro. L’elettorato campano aveva appena eletto alla guida della regione proprio il candidato del Pd, Vincenzo De Luca, da lei inserito all’ultimo momento in una lista d’impresentabili. Che costituiscono l’ultima strana categoria prodotta dalla letteratura politica italiana con un cosiddetto codice etico accettato nella Commissione antimafia da partiti in cerca affannosa di popolarità. E’ la categoria dei candidabili ed eleggibili per legge ma praticamente indegni dell’onore perché rinviati a giudizio per certi reati “spia” di altri più gravi, benché non condannati, a volte addirittura assolti in primo grado con sentenze però impugnate dall’accusa. Un’accusa che naturalmente può perdere anche in secondo e terzo grado, ma riesce intanto a fare scambiare l’imputato, con tanto di bollini parlamentari, per un indegno della fiducia elettorale.

Si tratta di un autentico obbrobrio, visto che l’articolo 27 della Costituzione stabilisce che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Un articolo che avrebbe dovuto imporre ai presidenti delle Camere un intervento dissuasivo sulla presidente della Commissione antimafia. Ma il presidente del Senato, peraltro professionista di lungo corso della lotta giudiziaria alla mafia, e la presidente di Montecitorio, non hanno ritenuto di farlo, benché sollecitati da personalità al di sopra di ogni sospetto: per esempio, l’anziano ex parlamentare e dirigente comunista Emanuele Macaluso. Che ha arricchito l’esortazione con la storia paradossale, ma emblematica, delle suore di clausura di Napoli provviste di regolare licenza ecclesiastica di votare, ma tanto sconcertate dall’iniziativa della Bindi da essere state tentate sino all’ultimo momento dall’astensione, per paura evidentemente di fare torto, tramite la presidente dell’Antimafia, allo stesso Domineddio.

Anche nei conventi, quindi, la Bindi è riuscita a creare scompiglio con la sua gestione della Commissione antimafia, la cui sede si trova, per una circostanza non si sa se più fortunata o sfortunata, nell’ex convento del palazzo romano di San Macuto.

Ma oltre a De Luca, anche altri candidati minori, a semplici consiglieri regionali, segnalati con l’arma di un illegittimo codice etico accettato da partiti pavidi, hanno superato domenica la prova elettorale, contribuendo probabilmente al malumore della Bindi. Che però, non potendo chiedere le scuse degli elettori, visto il carattere fortunatamente e obbligatoriamente segreto del voto, le “pretende”, letteralmente e “pubblicamente”, dai dirigenti renziani del suo partito che si sono permessi di criticarla. Dirigenti dai quali la signora, nel frattempo denunciata giudiziariamente da De Luca, si sente ora ingiustamente delegittimata nel suo ruolo istituzionale.

“Nessuno – ha detto la Bindi – mi può accusare di avere mai accoltellato qualcuno alle spalle”. Ma l’accusa rivoltale è di avere accoltellato politicamente, e basta. Non alle spalle, ma di fronte, a tempi quasi scaduti della partita elettorale, e con la forza di cui è notoriamente capace la signora. Il cui arrivo alla presidenza dell’Antimafia, nell’autunno del 2013, avvenne con un blitz che fece rasentare la crisi dell’allora governo di Enrico Letta, già in difficoltà per la partita aperta della decadenza di Silvio Berlusconi da senatore.

A dispetto delle “larghe intese” della maggioranza lettiana, la Bindi volle scalare l’Antimafia con le sole corde del suo partito e della sinistra vendoliana. Poi promise di “sanare la frattura” con il centrodestra. Ma ne è arrivata ora una ancora più grave e grossa con il suo stesso partito. Ai cui dirigenti renziani, oggi critici ma allora impegnatisi per lei, si potrebbe ben dire che hanno ottenuto ciò che meritavano.

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