Dal 150° anniversario dell’Unità d’Italia (1861-2011) stiamo assistendo come ad un “fiume carsico” di incontri, progetti, manifestazioni e libri per rivisitare quel complesso fenomeno storico-politico che, i “vincitori”, hanno fatto passare semplicisticamente per Risorgimento. Si tratta di iniziative che, per lo più, non intendono riaprire “antiche ferite” o rimettere in discussione l’identità nazionale ma, piuttosto, rafforzarla dando almeno l’onore della memoria ai “vinti”, cioè ad esempio ai briganti, altro termine ideologico usato per designare gli artefici meridionali della reazione armata contro il nuovo assetto statuale unitario imposto con la forza dai Savoia.
GLI “EREDI” DEL BRIGANTAGGIO POST-UNITARIO
Gli “eredi” ideali del brigantaggio post-unitario italiano (1860-70), stanno cercando da tempo di aprire nuovi orizzonti identitari e, grazie a iniziative ed una militanza quotidiana fatta di comunità ritrovi e convegni, stanno alimentando quel variegato movimento “neo-borbonico” che, riconoscendo il valore di quel Francesco II, ultimo sovrano del regno delle Due Sicilie, illegittimamente (secondo loro) spodestato dalle truppe di Vittorio Emanuele II di Savoia, ne additano e seguono ancora oggi le orme.
Il prossimo 28 giugno una delle più dinamiche realtà aggregative del mondo neo-borbonico, i “Comitati delle Due Sicilie” (CDS), presenti in Campania, Puglia, Calabria e Abruzzo, hanno organizzato una rievocazione di quel Pasquale Domenico Romano (1833-1863), noto come Sergente Romano, che è stato un militare prima del Regio esercito borbonico e, poi, un valente comandante dei briganti. Presso la “Grotta del Sergente Romano”, che diede rifugio dopo il 1861 ai briganti difensori del regno delle Due Sicilie, i CDS promuovono una passeggiata domenicale di valore storico, ecologico e culturale, prima delle iniziative della “campagna estiva” diretta a mettere in contatto militanti, simpatizzanti o semplici curiosi con i protagonisti e le terre un tempo governate dai sovrani della famiglia Borbone. I Comitati hanno quindi previsto nei prossimi due mesi analoghi itinerari a Solopaca (BN), nel luglio, a Spoltore (PE) agli inizi di agosto ed, infine, a Fagnano Castello (CS) alla fine di agosto.
LA RIEVOCAZIONE NELLA “GROTTA DEL SERGENTE ROMANO”
L’evento che si terrà il 28 giugno 2015, avrà come punto di ritrovo (ore 10.00) la “Masseria La Signora” a Martina Franca, in provincia di Taranto. Poi alle ore 10.30, è prevista una visita al vicino bosco delle Pianelle, con deposizione di una corona di fiori in ricordo dei legittimisti borbonici. nella “grotta dei briganti”. La giornata proseguirà con una Messa in suffragio dei “resistenti” delle Due Sicilie, celebrata da Don Luciano Rotolo, fondatore e cappellano della Fondazione “Francesco II di Borbone”.
Nel pomeriggio (ore 17.00) l’ultima discendente del Sergente Romano, la dottoressa Chiara Curione presenterà il libro “Un eroe dalla parte sbagliata”, dedicato al suo avo. Concluderà un incontro conviviale con saluti e interventi vari (per contatti: e-mail comitatiduesicilie@gmail.com).
VITA, MORTE E “MIRACOLI” DI PASQUALE DOMENICO ROMANO
Uno degli esponenti pugliesi più significativi del brigantaggio è stato indubbiamente Pasquale Domenico Romano che, nato a Gioia del Colle il 24 settembre 1833, è passato alla storia per aver promesso a quasi realizzato il sogno della restaurazione borbonica nel Sud d’Italia. Figlio di un pastore e di una contadina acquavivese, a 18 anni si arruola nell’esercito borbonico, nel quale presta servizio per circa 10 anni. In quegli anni impara a leggere e a scrivere e, per la sua condotta esemplare, viene nominato “Primo Sergente”, con l’onore di essere l’alfiere della prima Compagnia del 5° Reggimento di linea.
A seguito del plebiscito garibaldino del 21 ottobre 1860 e della conseguente unificazione dell’Italia l’esercito borbonico viene disciolto e, nel gennaio 1861, il Romano è costretto a far ritorno a Gioia. Deluso dal nuovo governo accetta la designazione di Comandante generale delle squadre filoborboniche di Gioia. Il “Brigantaggio”, in effetti, fu la reazione di persone che, come lui, erano convinte che i troni dei vecchi sovrani fossero stati usurpati dal nuovo Stato Sabaudo che aveva portato mancanza di lavoro, il rincaro della vita, confisca degli usi civici e dei beni ecclesiastici, introduzione della coscrizione obbligatoria, inasprimento fiscale e nuove tasse che finivano per gravare pesantemente soprattutto sui ceti popolari.
Anche un piemontese, Carlo Gastaldi, fece parte della banda comandata dal Sergente Romano e, scrivendo ai suoi genitori, ci ha lasciato questa sua testimonianza diretta: «I miei commilitoni erano appartenenti a Francesco II e non già briganti come sono spacciati».
L’attività del Sergente Romano ricalcò quella degli altri “gruppi briganti”, tra i quali è ancora molto ricordato quello guidato dal famoso “Fra’ Diavolo”. Per due anni (dal 1861 al 1863) lo troviamo impegnato non solo a Gioia del Colle, ma anche nei paesi limitrofi.
L’episodio rivoluzionario più importante è sicuramente quello avvenuto il 28 luglio 1861. Lo storico Antonio Lucarelli (1874-1952), riassumendo quanto rimane nei Processi Penali di Corte di Assise presso l’Archivio di Stato di Bari e nell’Archivio del Comune di Gioia, così ricorda quella storica giornata: «Un altro sergente borbonico, Pasquale Domenico Romano, non privo d’ingegno e di sagacia, esasperato dalle contumelie dei concittadini liberali, raccoglie nei boschi una schiera di ribelli, muove, ardente di vendetta, sulla città natia e, con abile manovra, riesce ad impadronirsi del sobborgo di S. Vito, dov’è accolto da tre mila popolani inneggianti alla restaurazione con bandiere spiegate. Uomini e donne, giovinetti e fanciulle del popolo, munite di falci, scuri, zappe, spiedi, forconi ed archibugi, fronteggiano l’armata borghesia, quasi accampata nell’opposto Borgo Palmieri e nel centro dell’abitato; avanzano intrepidi a passo di ginnastica sotto il fuoco dei fucili e, con sommo ardimento, s’impossessano di un cannone, maneggiato dagli artiglieri della Guardia Nazionale. Trascorrono, poscia, ai più efferati eccessi: ammazzano, incendiano, distruggono; si cibano, orribile a dirsi, di pane inzuppato nel sangue delle vittime e restan lì, assoluti padroni del campo, dalle dieci antimeridiane fino alle quattro del pomeriggio. Frattanto da Bari, da Altamura, da Acquaviva e da tutti i comuni limitrofi accorrono, chiamati d’urgenza, plotoni di carabinieri, compagnie dell’esercito e drappelli di guardie nazionali che procedono, senza indugio, alla espugnazione del popoloso quartiere. I contadini resistono con tenacia eroica, ma anche qui, vinti dalla superiorità dei nostri soldati e minacciati di accerchiamento, scappan via, riprendendo i sentieri della foresta. Sedata la ribellione, il sindaco della città, gli ufficiali della truppa e i comandanti della guardia nazionale, costituiti in consiglio di guerra, compiono sommari giudizi ed emettono estreme condanne, che vengono subito eseguite nei pressi del camposanto civico. Orrenda caneficina!».
In quella giornata muoiono non meno di 150 persone e lo stesso Romano, ferito ad una gamba e ad un braccio, riesce a sfuggire alla cattura, nascondendosi nella famosa grotta sulla strada per Acquaviva, per poi darsi a riorganizzare la sua banda.
Il suo atto di morte è ripreso nella “Storia di Gioia Dal Colle” di Giovanni Carano Donvito e riporta: «Cinque gennaio 1863, ore 21, morto, ucciso dalla forza in questa campagna Pasquale Domenico Romano, sergente borbonico, figlio di Giuseppe, pecoraro, e di Anna Concetta Lorusso, di anni 29, domiciliato alla Strada Canale. Il suo corpo, legato al dorso di un asino, viene portato un giro per il paese ed è oggetto di insulti da parte dei suoi concittadini. Nudo, rimane esposto al pubblico disprezzo in Piazza Castello, per due giorni e, subito dopo, di nascosto, viene sepolto».
In realtà, un altro storico riporta invece testimonianze dell’attaccamento degli abitanti il paese ove fu ucciso verso il sergente: «Tutti gli abitanti del paese vollero contemplare un’ultima volta questi resti irriconoscibili dell’eroico brigante; si veniva là come ad un pellegrinaggio santificato dal martirio; gli uomini si scoprivano il capo, le donne si inginocchiavano, quasi tutti piangevano. Mai un’accusa si levava contro la memoria del morto, mai un grido di riprovazione fu inteso; egli portava nella tomba i rimpianti e l’ammirazione dei suoi compatrioti» (Oscar de Poli, De Naples à Palerme, Parigi 1865, p. 12).
LA FEDE CATTOLICA DEL SERGENTE ROMANO
Contrariamente a quanto afferma la storiografia marxista sui briganti, la sua lotta contro il Regno di Italia fu dovuta non solamente al rispetto del giuramento fatto al Re Francesco II, ma anche alla difesa del al popolo e della religione dei padri (cioè il Cattolicesimo). Significativo è il giuramento ritrovato sul suo corpo dopo la sua morte: «Promettiamo e giuriamo di sempre difendere con l’effusione del sangue Iddio, il sommo pontefice Pio IX, Francesco II, re del regno delle Due Sicilie, ed il comandante della nostra colonna degnamente affidatagli e dipendere da qualunque suo ordine, sempre pel bene dei soprannominati articoli; così Iddio ci aiuterà e ci assisterà sempre a combattere contro i ribelli della santa Chiesa».
Oltre al giuramento sul suo corpo si trovarono delle preghiere a Dio e alla Vergine Maria.
Trovato morto, la gente di Gioia del Colle non voleva credere alla sua uccisione. Una leggenda popolare, infatti, raccontava che il corpo non fosse il suo, essendo il sergente Romano per il popolo immortale grazie ad una medaglietta che aveva ricevuto in dono da Pio IX.